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dimanche, 19 octobre 2014

La battaglia sull’Istmo di Perekop

La battaglia sull’Istmo di Perekop

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Ex: http://www.centrostudilaruna.it

300px-Isthmus_of_Perekop_map.pngNell’autunno del 1920 la guerra civile russa era ormai avviata verso la sua inevitabile conclusione, con le armate bianche che cedevano, una dopo l’altra, davanti alla pressione dell’Armata rossa forgiata da Trotzkij e da lui diretta con spietata energia.

A parte le prime formazioni di Cosacchi antibolscevichi, come quella del generale Krasnov, che si appoggiava sull’aiuto dei Tedeschi (prima che la Germania uscisse sconfitta dalla prima guerra mondiale) e a parte l’esercito dei volontari cecoslovacchi, i quali, nell’estate del 1918, si erano impadroniti quasi senza colpo ferire di gran parte della ferrovia transiberiana e della regione degli Urali, tre furono le principali armate bianche che, nel corso del 1919, avevano costituito un serio pericolo per il potere bolscevico:

a) l’esercito siberiano dell’ammiraglio Kolčiak, autoproclamatosi “supremo reggitore” dello Stato russo e riconosciuto quale capo nominale di tutte le armate bianche, il quale, nei primi mesi dell’anno, si era spinto in direzione di Kazan’ e di Mosca. L’Armata rossa lo aveva però contrattaccato il 28 aprile e, in maggio, aveva sfondato le sue linee, dapprima respingendolo al di là degli Urali; poi, in agosto, dopo aver preso Celjabinsk ed Ekaterinburg, lanciando una nuova offensiva sul fronte Tobolsk-Kurgan e procedendo assai velocemente lungo la transiberiana, tanto da occupare Omsk già il 14 novembre. Kolčak venne consegnato, il 15 gennaio, dai Cecoslovacchi a un governo provvisorio filo-sovietico formatosi a Irkutsk e da questo processato e fucilato il 7 febbraio; il suo corpo venne buttato in un buco scavato nel ghiaccio del fiume Angara.

b) L’esercito bianco del generale Denikin, che nell’estate del 1919 aveva riportato successi spettacolari e, dalla regione del Kuban, aveva invaso l’Ucraina, spingendosi fino a Orel, sulla via adducente a Mosca da sud. Esso era stato a sua volta contrattaccato dall’Armata rossa a partire dal 10 ottobre e costretto a una precipitosa e drammatica ritirata. Alla fine dell’anno, i suoi resti erano tornati, assai mal ridotti, sulle posizioni di partenza della primavera, fra Kursk ed Ekaterinoslav; Denikin, sfiduciato, aveva passato le consegne al generale Wrangel, il quale aveva dedicato i mesi invernali a riorganizzare le truppe e i servizi logistici.

c) Il terzo attacco ai centri vitali del potere bolscevico era stato sferrato nell’autunno del 1919 dal generale Judenič il quale, con il sostegno della flotta inglese, era sbarcato nel Golfo di Finlandia e aveva marciato direttamente sulla vecchia capitale imperiale, Pietrogrado. La minaccia era stata seria, perché si era profilata contemporaneamente all’avanzata di Denikin dall’Ucraina, (mentre le forze di Kolčiak erano già in piena dissoluzione); ma anch’essa era stata affrontata e sventata con la massima energia dall’Armata rossa, che era passata decisamente al contrattacco, il 22 ottobre, e aveva costretto le forze di Judenič a interrompere la marcia su Pietrogrado e a reimbarcarsi in tutta fretta.

Così, all’inizio del 1920, a parte le bande degli atamani Semënov e Kalmykov, rispettivamente a Čita e Khabarovsk, al di là del lago Bajkal – ove era sorta, a fare da cuscinetto fra i Rossi e un corpo di spedizione di 70.000 soldati giapponesi, una effimera Repubblica dell’Estremo Oriente -; il piccolo esercito del barone Ungern-Sternberg nella Mongolia Interna; alcune forze cosacche nell’Asia centrale e nella regione del Caucaso; e alcune bande ucraine operanti nella zona di Kiev, restavano ora due soli avversari cospicui per l’Armata rossa: l’esercito polacco del maresciallo Pilsudski, pronto ad attaccare nella primavera del 1920, e quello dei Russi “bianchi” del generale Wrangel, attestato nell’Ucraina meridionale.

In Estremo Oriente, la guerriglia contro le ultime forze “bianche” e contro gli stessi Giapponesi venne condotta da bande di partigiani, sia bolscevichi che anarchici; mentre l’offensiva scatenata da Pilsudski nel maggio venne respinta e l’Armata rossa, passata a sua volta all’attacco, venne battuta in maniera decisiva sotto le mura di Varsavia, in agosto: sicché, il 18 marzo 1921, si giunse alla pace di Riga fra Polonia e Unione Sovietica. Abbiamo già narrato questi avvenimenti in due lavori precedenti: Trjapicyn in Siberia orientale: breve la vita felice di un “bandito” anarchico; e Chi ha voluto la guerra sovietico-polacca del 1920? Una questione storiografica ancora aperta.

Pertanto, nell’autunno del 1920, Trotzkij era ormai libero di concentrare le forze maggiori dell’Armata rossa contro l’ultimo esercito “bianco” ancora attestato in territorio russo e dotato di una buona capacità combattiva: quello del barone Wrangel. Anche le bande anarchiche di Machno, fino ad allora ostili ai bolscevichi, siglarono una tregua e accettarono anzi di passare sotto il comando del generale Frunze, in vista di una offensiva finale contro i Bianchi. Un ambasciatore inviato a Machno da Wrangel, per esplorare le possibilità di una alleanza tattica in funzione antibolscevica, era stato impiccato; il capo anarchico non sapeva, allora, che subito dopo la liquidazione dell’ultima armata “bianca” sarebbe venuta anche la sua ora.

wrangel

 

 

Pyotr Nikolayevich Wrangel (27 agosto 1878 – 25 aprile 1928)

Wrangel non godeva dell’appoggio delle popolazioni ucraine, per le stesse ragioni che avevano provocato la sconfitta di Kolčak, Denikin e Judenič: la diffidenza dei contadini e l’esiguità delle classi medie che, sole, avrebbero potuto costituire una base sociale determinante; e ciò nonostante che Wrangel, ammaestrato dalla disfatta degli altri generali “bianchi”, avesse promesso ai contadini una riforma agraria radicale, a spese della grande proprietà terriera.

I bolscevichi, con i loro metodi brutali di requisizioni forzate e con l’esercizio di una spietata dittatura, mascherata sotto l’apparenza di autonomia dei Soviet, avevano destato anch’essi notevoli diffidenze da parte dei contadini e suscitato malumori perfino tra i marinai e nella classe operaia (come si sarebbe visto nella rivolta di Kronstadt, repressa da Tuchacevskij nel marzo 1921). Essi erano però più abili a livello propagandistico, sfruttando slogan come «tutto il potere ai Soviet» e «la terra a chi la lavora»; e dipingendo tutti i Bianchi, senza alcuna sfumatura, come gli strumenti della restaurazione monarchica e aristocratica.

Una valutazione imparziale di quegli avvenimenti esige che si riconoscano a Wrangel delle capacità militari e organizzative veramente eccezionali: possedeva più costanza di Denikin e più senso politico di Kolčak; e, pur non facendosi illusioni sull’esito finale di una lotta così ineguale, era capace di infondere coraggio e determinazione ai suoi uomini, demoralizzati da tante sconfitte e ridotti a lottare con una crescente penuria di materiali da guerra ed equipaggiamenti; cui si aggiunsero – alla metà di ottobre – delle condizioni climatiche precocemente ed eccezionalmente rigide, che aumentarono le loro sofferenze.

Riteniamo si possa sostanzialmente concordare con il giudizio che di Wrangel ha dato lo storico inglese W. H. Chamberlin nella sua ormai classica Storia della Rivoluzione russa, 1917-1921 (titolo originale: The Russian Revolution, 1917-1921, 1935; traduzione italiana di Mario Vinciguerra, Torino, Einaudi, 1966, pp. 728, 740-42):

«Wrangel contribuì a infondere nuova energia nelle file dei Bianchi. Lavorando giorno e notte riorganizzò totalmente l’amministrazione militare e civile nella piccola zona sotto la sua autorità, e trasformò quelle truppe dalla massa informe di profughi cui s’erano ridotti a un’efficiente forza combattiva. Alcune delle misure prese a quello scopo dai suoi luogotenenti furono estremamente brutali. Ad esempio, il generale Kutepov fece impiccare in pubblico ufficiali e soldati colti in stato di avanzata ubriachezza nelle strade di Simferopol'; ma nel complesso questi provvedimenti raggiunsero il loro scopo. Lo spiriti bellicoso delle truppe, che era quasi svanito durante la lunga e tremenda ritirata da Orel a Novorossijsk, fu restaurato. Uno scrittore sovietico esprime il seguente apprezzamento sullo stato dell’esercito di Wrangel nella primavera e nell’estate del 1920: “Qualitativamente era la migliore forza combattente d cui avesse mai disposto la controrivoluzione russa e internazionale nella sua lotta contro le Repubbliche sovietiche”.

Questo giudizio è confermato dal corso delle operazioni militari. Le truppe di Wrangel non solo tennero a bada ma respinsero forze sovietiche considerevolmente superiori, e soccombettero solo quando, per effetto della pace conclusa con la Polonia, esse furono letteralmente schiacciate dal numero delle forze sovietiche […].

Wrangel fu l’ultimo capo del movimento bianco organizzato in Russia. Trovandosi fin da principio di fronte a una forte disparità di forze, la sua disfatta era quasi inevitabile. Pochi degli uomini di stato antibolscevichi più autorevoli ebbero voglia di entrare nel suo governo. Egli non fece miracoli. Con un piccolo esercito e una base di operazioni inadeguata, non poteva tener testa indefinitamente all’enorme esercito rosso, che attingeva i propri soldati da quasi tutta la Russia. Coi suoi precedenti di ufficiale aristocratico, non poteva superare il grande abisso di sospetto e di ostilità che sempre sussistettero tra il movimento e le masse dei contadini, e fu la causa fondamentale della sua disfatta.

Ma, tenuto conto di questi inevitabili fattori negativi, Wrangel si batté valorosamente. Aveva ereditato un relitto di esercito e seppe rifoggiarlo in forza combattente che inferse ai Rossi alcuni fieri colpi. Wrangel non poteva salvare quella vecchia Russia di cui s’era fatto campione e rappresentante, ma la sua attività militare, che tenne una quantità di truppe rosse impegnate in Ucraina e nel Kuban, non fu certo l’ultima ragione per cui l’esercito rosso mancò davanti a Varsavia di quella estrema riserva d’energia che avrebbe creato una Polonia sovietica ed esteso il bolscevismo molto oltre le frontiere russe. Visto da questo lato, l’epilogo del movimento bianco, impersonato da Wrangel, fu una fortuna per la Polonia e forse per altri stati di nuova formazione dell’Europa orientale come fu funesto per il governo sovietico e per l’Internazionale comunista».

Una prima offensiva contro le forze di Wrangel, lanciata l’8 gennaio 1920, aveva portato i reparti dell’Armata rossa fino a ridosso della Crimea, centro nevralgico dei Bianchi, con i suoi porti affollati di navi russe e delle potenze dell’Intesa. Sarebbe errato, tuttavia, vedere Wrangel come una semplice creazione degli Alleati; in realtà, dopo la sconfitta di Denikin, i governi di Londra e Parigi avevano rinunciato alla speranza di assistere a una caduta del regime sovietico in tempi brevi e, di fatto, avevano ritirato il loro appoggio militare e finanziario ai Bianchi, limitandosi solo a vaghe promesse e ad un certo sostegno logistico.

I Francesi, in particolare – che avevano investito grossi capitali in Russia prima e durante la prima guerra mondiale, avevano puntato quasi tutte le loro carte sulla Polonia di Pilsudski; e, dopo la vittoria di quest’ultimo davanti a Varsavia, si disinteressarono sostanzialmente del destino di Wrangel. Come se non bastasse, la loro flotta, stanziata a Odessa, era stata scossa dagli ammutinamenti degli equipaggi nel 1919, per cui il governo francese non si illudeva di poter prolungare la propria influenza politico-militare nell’area del Mar Nero.

Ci furono invece delle trattative interalleate che sembrarono sfociare in una spedizione militare italiana in Georgia, all’inizio dell’estate 1919; ma poi non se ne fece più nulla, specialmente a causa dell’instabilità dei governi italiani tra la fine della prima guerra mondiale e l’ascesa del fascismo. Nel caso specifico, fu l’opposizione di Nitti al progetto che lo fece cadere, e con esso cadde il ministero Orlando, che lo aveva preparato e si accingeva a porlo in atto.

Quanto agli Inglesi, essi avevano puntato su Kolčak, cui avevano fornito non solo abbondante materiale da guerra e ingenti risorse finanziarie, ma anche consiglieri militari; e, dopo la sua sconfitta, avevano rinunciato all’idea di poter rovesciare il regime sovietico mediante l’azione degli eserciti “bianchi”.

Sapendo di non poter più vincere la guerra civile sul campo, Wrangel – che era un uomo intelligente e che possedeva uno spiccato senso realistico – studiò il modo di ritardare l’investimento della sua cittadella crimeana e di intavolare eventualmente trattative coi bolscevichi, attraverso i buoni uffici delle potenze occidentali; ma, per poterlo fare, desiderava raggiungere una posizione strategica migliore, che rendesse più forte anche la sua posizione politica.

Pertanto, nell’estate, egli effettuò alcuni sbarchi sulla costa orientale del Mar d’Azov, investendo il territorio del Kuban e minacciando di congiungersi con il cosiddetto Esercito della rigenerazione russa, che si era stabilito nella regione settentrionale del Caucaso. Il collegamento non riuscì, nonostante le forze bianche riportassero, nel mese di agosto, una serie di successi inaspettati; per cui, in settembre, le truppe di Wrangel dovettero reimbarcarsi.

Aspettandosi ora una nuova, grande offensiva dell’Armata rossa, Wrangel attestò il suo esercito nella Tauride settentrionale e, intanto, provvide a fortificare potentemente l’istmo di Perekop, un vero e proprio “collo di bottiglia”, mediante il quale si accede, da nord-ovest a sud-est, alla penisola di Crimea.

In effetti, l’offensiva sovietica scattò il 28 ottobre, contemporaneamente alla fine delle grandi operazioni sul teatro polacco; e, dopo una lotta accanita, terminò com’era inevitabile: con l’irruzione dei Rossi fino agli accessi dell’istmo. In questa battaglia Wrangel aveva potuto mettere in linea non più di 35 uomini, contro circa 137.000 dell’Armata rossa.

Ai primi di novembre, dunque, le due armate si fronteggiavano sull’istmo, davanti a Perekop, dove i Bianchi era asserragliati dietro il cosiddetto Vallo Turco, una triplice linea di difesa munita di trincee, filo spinato, nidi di mitragliatrici e postazioni d’artiglieria. Molti consideravano le difese dell’istmo semplicemente imprendibili; ma, come vedremo, le forze della natura diedero ai Sovietici, che già godevano di una schiacciante superiorità numerica, anche un inatteso vantaggio strategico, allorché il vento rese transitabile il passaggio di terra dalla Penisola Čongar alla Penisola Lituana, respingendo le acque basse del mare; mentre le gelide temperature permisero al fondo fangoso di solidificarsi in una solida crosta di ghiaccio.

Scrive lo storico americano W. Bruce Lincoln nel suo libro I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa (titolo originario: Red Victory, 1989; traduzione italiana di Francesco Saba Sardi, Milano, Mondadori, 1991, 1994, pp. 396-401):

Mikhail Frunze (2 febbraio 1885 – 31 ottobre1925)

Mikhail Frunze (2 febbraio 1885 – 31 ottobre1925)

«Solo lentamente i soldati di Wrangel cedettero terreno sotto l’enorme pressione dell’Armata Rossa durante la prima settimana di aspri combattimenti, e l’assalto finale di Frunze non fu coronato dal trionfo che si era atteso. Le forze di Bljücher e di Budënnyi erano avanzate di oltre 120 chilometri in tre giorni nel deciso tentativo di raggiungere la ferrovia in modo da tagliare la strada alla ritirata di Wrangel in Crimea, ma le unità rosse più a est dovettero disputare al nemico ogni pollice di terra e avanzarono assai più lentamente. “Sono stupefatto dell’enorme energia con cui il nemico resiste – comunicò Frunze a Mosca. – è indubbio che il nemico ha combattuto più validamente e tenacemente di quanto avrebbe fatto ogni altro esercito”. Fu così che i reparti di Wrangel in ritirata vinsero la corsa per la Crimea, e i disperati sforzi di allievi ufficiali e unità di seconda linea impedirono ai fucilieri di Bljücher di impadronirsi del Passo di Salkovo e di fare sfondare la prima linea di difesa a Perekop. Ma i Bianchi pagarono assai cari i loro momentanei successi. Aprendosi la strada nella Tauride settentrionale, le forze di Frunze catturarono quasi 20.000 prigionieri, un centinaio di pezzi da campo, un gran numero di mitragliatrici, decine di migliaia di granate e milioni di cartucce. “L’esercito rimase intatto – commentò in seguito Wrangel -, ma le sue capacità combattive non furono più quelle di prima”, né d’altra parte era riuscito a conservare quelle fonti alimentari per le quali aveva rischiato tanto: oltre 36.000 tonnellate di cereali del raccolto autunnale accantonate dalla sua sussistenza nei magazzini ferroviari di Melitopol e di Geničesk caddero nelle mani di Frunze.

Quesri aveva perduto l’occasione di riportare una vittoria decisiva non essendo riuscito ad accerchiare l’esercito di Wrangel prima che raggiungesse la Crimea; costretto pertanto a dare l’assalto alla fortezza peninsulare, aumentò le proprie forze e inviò i ricognitori che si erano di recente aggiunti ai suoi rafforzati reparti aerei a fotografare le linee nemiche. Alla fine della prima settimana di novembre, aveva ammassato 180.771 uomini appoggiati da quasi 3.000 mitragliatrici, oltre 600 pezzi d’artiglieria e 23 treni corazzati con cui affrontare i 26.000 regolari bianchi e le 16.000 male armate riserve che guarnivano le difese della Crimea.

Frunze decise di sferrare l’attacco principale contro il Vallo Turco, una barriera ottomana del XVIII secolo lungo la quale Wrangel aveva creato nidi ben protetti di mitragliatrici e piazzole di artiglieria, in modo da assicurare fuoco incrociato a complemento delle fitte barriere di filo spinato che costituivano la prima linea di Perekop, dietro la quale i residui treni corazzati dei Bianchi erano in grado di muoverei avanti e indietro lungo la recente diramazione ferroviaria Sebastopoli-Jušun-Amjansk, coprendo con i loro pezzi gli approcci del vallo. La 51a Divsione di Bljücher ebbe l’ordine di guidare l’attacco, e il suo comandante ne concentrò i fucilieri in ordine talmente serrato, che in certi punti aveva un uomo ogni metro e una mitragliatrice a sostegno di ogni 17 uomini. Alla sinistra di Bljücher, di fronte alle paludi salmastre di Sivaš e al ponte di Čongar un po’ più a est, Frunze schierò la Kornarmija di Budënnyi, la IV Armata Rossa e i partigiani di Machno, tenendo di riserva la maggior parte di tre armate. Stando ai resoconti sovietici, erano tutti reparti animati da alto spirito combattivo, decisi a celebrare il 7 novembre il terzo anniversario della rivoluzione bolscevica infliggendo una disfatta all’ultima cospicua forza bianca sul suolo russo.

Nonostante gli uomini e le armi che Frunze aveva radunato in vista della battaglia, i difensori della Crimea non si erano lasciati infettare dal sentimento di sconfitta che alla fine del 1919 aveva minato Denikin e i Bianchi a Novorossijsk. Wrangel aveva cominciato i preparativi per un’evacuazione in massa, ma così silenziosamente e in tempi così lunghi da mascherare l’intento. “Le misure da noi prese avevano placato le ansie che si erano qua e là manifestate”, commentò in seguito. “Dietro le linee, tutto restava tranquillo perché ciascuno credeva nell’imprendibilità delle fortificazioni di Perekop”, ed era una convinzione tutt’altro che infondata. I giornali di Crimea parlavano ancora in tono fiducioso delle difese dell’istmo di Perekop, del ponte di Čongar e della costiera intermedia. “Le fortificazioni di Sivaš e di Perekop sono talmente solide, che il Comando supremo rosso non dispone né degli uomini né delle macchine per sfondarle, assicurava il 4 novembre il foglio “Vremja” (“Tempi”). Tutte le forze armate del Sovdepja messe assieme non bastano a intimidire la Crimea”. Wrangel, forse ancora speranzoso di riuscire a bloccare Frunze, ma intento soprattutto a guadagnare il tempo necessario per portare a termine un’evacuazione ordinata, unificò la I e la II Armata sotto gli ordini del generale Kutepov, il migliore e il più tenace dei reparti combattenti che gli restassero. Universalmente noto per la feroce crudeltà nei confronti di bolscevichi e loro simpatizzanti, e ampiamente sospettato di di aver intascato colossali bustarelle in cambio di permessi di esportazione e importazione quando aveva comandato la guarnigione di Novoriossijsk, Kutepov continuava ciò nonostante a godere della piena fiducia di Wrangel quale ufficiale “in grado di affrontare qualsiasi situazione, un uomo dal grande valore militare e di eccezionale tenacia nella realizzazione dei compiti affidatigli.” Kutepov avrebbe difeso il Vallo Turco come nessun altro avrebbe potuto fare; e se non ci fosse riuscito, Wrangel avrebbe saputo senz’ombra di dubbio che la fine era giunta.

La mattina del 7 novembre, dopo aver impartito gli ultimi ordini per l’attacco, Frunze si recò al quartier generale di Budënnyi dove con questi e Vorošilov compilò un telegramma di congratulazioni a Lenin nel terzo anniversario della rivoluzione bolscevica, promettendogli la vittoria conclusiva a celebrazione della stessa. “In nome degli eserciti del fronte meridionale, ormai pronti a sferrare il colpo finale contro la tana della belva mortalmente ferita, e in nome delle rinnovate aquile delle grandi armate di cavalleria, salute – esordiva il testo. – La nostra ferrea fanteria, la nostra audace cavalleria, la nostra invincibile artiglieria e i nostri rapidi aviatori dalla vista acuta… libereranno quest’ultimo lembo di terra sovietica da ogni nemico”, si prometteva a Lenin. Forse più di ogni altra unità in azione nella Russia meridionale, la 51a Divisione di Bljücher meritava tutti quei superlativi, ed era sul suo assalto frontale contro il Vallo Turco che Frunze, Vorošilov e Budënnyi contavano per irrompere nel bastione crimeano di Wrangel. Ma ad aiutare la loro causa più di quanto avrebbe potuto fare ogni atto di valore, per quanto grande, furono l’imprevedibile e l’inaspettato. La natura, le cui forze avevano inflitto tanti tormenti al popolo della Russia bolscevica durante i due aspri inverni precedenti, questa volta si schierò dalla parte dei Rossi, aprendo loro nuove, insospettate vie d’attacco.

Forse solo due o tre volte nel corso di una generazione, un forte vento investe da nordovest la Crimea, spingendo verso est le basse acque che coprono i bassifondi salini del Sivaš e lasciando allo scoperto la sottostante, putrida fanghiglia. Il 7 novembre 1920, imperversò un vento talmente furioso, accompagnato da temperature così basse che la notte del 7-8 novembre il fondo melmoso del Sivaš, così di rado scoperto, si gelò formando una superficie tanto solida da reggere uomini e cavalli. Alle 22, mentre gran parte della 51a Divisione di Bljücher si apprestava ad assalire le posizioni di Kutepov lungo il Vallo Turco, la 15a e la 52a Divisione di fucilieri, in una con la 153a Brigata di fucilieri e di cavalleria della 51a Divisione, approfittando dell’insperato vantaggio. Una pesante nebbia grava sulla zona, impedendo alle sentinelle di Wrangel sulla Penisola Lituana di avvistare i reparti rossi impegnati nell’attraversamento dei sei chilometri del Sivaš. Ben presto, i piedi e gli zoccoli di uomini e cavalli trasformarono in gelida fanghiglia il fondo marino indurito, obbligando i reparti successivi a rallentare l’avanzata, in pari tempo aumentando le probabilità di scoperta; ciò nonostante, tutti i reparti raggiunsero la terraferma senza essere avvistati proprio mentre il vento cambiava direzione e l’acqua cominciava a crescere.

All’alba dell’8 novembre, gli infangati soldati di Frunze assalirono le deboli forze che Wrangel aveva lasciato sulla Penisola Lituana a difesa da un eventuale quanto improbabile attacco anfibio. Quello che i comandanti di entrambe le parti avevano immaginato essere un angolino dimenticato nella battaglia per la Crimea, ne divenne la chiave di volta allorché Kutepov ordinò contrattacchi a sostegno dei difensori della Penisola Lituana proprio mentre la 51a muoveva all’assalto del Vallo Turco. Per tutta la giornata, le sorti della battaglia rimasero incerte, e il destino dei Rossi e dei Bianchi parve ugualmente in bilico. Se l’assalto di Bljücher fosse fallito sarebbe stato facilissimo, per Kutepov, volgersi contro i ridotti reparti rossi che lo minacciavano alle spalle della Penisola Lituana e liquidarli, ora che le acque marine avevano rioccupato il Sivaš e Frunze non poteva né inviar loro rinforzi né richiamarli. D’altro parte, se l’attacco di Bljücher fosse stato coronato da successo, e i Rossi fossero avanzati oltre la Penisola Lituana, il grosso di Kutepov rischiava l’accerchiamento ad opera di un nemico assai più forte. Le sorti della battaglia dipendevano dallo sfondamento del Vallo Turco e dalla capacità delle truppe rosse sulla Penisola Lituana di resistere finché Bljücher ci fosse riuscito.

Dopo aver differito l’assalto per parecchie ore a causa della fitta nebbia, Bljücher aprì il bombardamento d’artiglieria contro il Vallo Turco proprio mentre le unità che avevano superato il Sivaš raggiungevano la Penisola Lituana. Quattro ore più tardi, le sue fanterie vennero avanti. In un primo momento il fuoco d’appoggio, per quanto pesante, non parve sufficiente a ridurre la tempesta di proiettili che artiglierie e mitragliatrici di Kutepov scagliarono addosso agli attaccanti: in alcuni reggimenti di Bljücher, le perdite ammontarono al sessanta per cento degli effettivi, e tre successive ondate di fanteria furono respinte dal fuoco nemico. Solo alle tre e mezza del mattino del 9 novembre, il quarto assalto condotto dalla 51a Divisione ebbe ragione del Vallo. “Fu come se una montagna mi cadesse dalle spalle – confessò poi Frunze. – Con la presa di Perekop scomparve il pericolo che le due divisioni tagliate fuori dalle acque refluenti del Sivaš venissero annientate.”

Il sollievo di Frunze accompagnò l’inizio delle più buie ore di Wrangel, il quale la sera del 9 novembre, alla notizia che il Vallo Turco era caduto, scrisse: “Il generale Kutepov mi riferì che, alla luce degli ultimi sviluppi, vale a dire la penetrazione del nemico nelle nostre posizioni di Perekop e il pericolo di un accerchiamento, aveva impartito l’ordine di ripiegamento sulla seconda linea fortificata… Eravamo sull’orlo del disastro… Erano già stati superati i limiti della capacità dell’esercito di resistere e le fortificazioni non potevano più bloccare il nemico. Erano necessarie urgenti misure per salvare l’esercito e la popolazione civile.” In netto contrasto con la ritirata di Denikin da Novorossijsk dell’anno prima, così malamente condotta, Wrangel, pur sperando nella vittoria, aveva elaborato precisi piani di evacuazione e disponeva pertanto di sufficienti riserve di carbone e nafta per tutte le navi in mano ai Bianchi. A questo punto diede fondo a tutte le sue risorse. “La minima esitazione, il più piccolo errore, potrebbe rovinare tutto”, ammonì. L’11 novembre ordinò che tutte le navi dei Bianchi accostassero alle zone di imbarco precedentemente scelte, vale a dire Evpatorija, Sebastopoli e Jalta, e altre ancora a Feodosija e a Kerč. Poi, mentre Kutepov conduceva azioni di retroguardia per rallentare l’avanzata rossa, Wrangel portò a termine i preparativi. Innanzitutto i malati e i feriti, poi i funzionari governativi, i civili e le forze armate, dovevano essere evacuati prima dell’arrivo dei Rossi. Il giorno dopo Wrangel impartì gli ultimi ordini. Le truppe dovevano rompere il contatto con il nemico e raggiungere i più vicini porti d’imbarco, lasciandosi alle spalle armamenti e materiali pesanti, mentre “tutti coloro che hanno partecipato con l’esercito a questa salita al Calvario – vale a dire i familiari dei soldati e quelli dei funzionari civili, nonché – chiunque altro possa correre pericolo se catturato dal nemico”, doveva avviarsi ai punti d’imbarco con i militari.

L’abilità di cui Wrangel diede prova nel mantenere il controllo di truppe e civili, fu brillantemente comprovata dal fatto che l’evacuazione ebbe luogo con panico e disordine minimi. Nel tardo pomeriggio del 14 novembre, Sebastopoli era ormai vuota e Wrangel, avuta notizia che anche l’evacuazione di Evpatorija era stata portata a termine, salì a bordo dell’incrociatore “Generale Kornilov” che l’avrebbe portato in esilio. A Jalta, la stessa scena si ripeté alle nove del mattino successivo e quello seguente ebbe luogo anche a Feodosija e, di lì a poche ore, a Kerč. Alle sedici del 16 novembre 1920, gli ultimi Bianchi, 145.693 uomini, donne e bambini erano a bordo di 126 navi in rotta verso Costantinopoli.»

Con l’evacuazione della Crimea e la scomparsa dell’ultimo consistente esercito antibolscevico, la sorte della guerra civile era definitivamente segnata. Uno dopo l’altro, l’Armata rossa spense gli ultimi focolai di resistenza nell’immenso territorio russo.

Le bande di Machno vennero spazzate via dall’Ucraina meridionale; l’ataman Petljura, che si era alleato coi Polacchi, vide infranto il suo sogno di una Ucraina occidentale indipendente; Ungern-Sternberg venne sconfitto e fucilato in Mongolia; le Repubbliche caucasiche furono riconquistate (Batum fu presa il 19 marzo 1921); i Giapponesi, preceduti dagli Americani, sgombrarono la Siberia e, nel 1922, la Repubblica dell’Estremo Oriente si sciolse e fu riassorbita dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (che assunse tale denominazione nel dicembre 1922, in occasione del X Congresso panrusso dei Soviet).

Prima ancora della sconfitta finale di Wrangel, anche la regione russa settentrionale di Arcangelo e Murmansk era stata evacuata dagli Inglesi che avevano puntato sul generale Miller, ma la cui posizione era divenuta insostenibile dopo la sconfitta di Kolčak. Infine, nell’Asia centrale, venne infranto il sogno di Enver pascià, ex membro del triumvirato dei “Giovani Turchi” che aveva governato l’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale (e che aveva personalmente deciso il genocidio degli Armeni nel 1915-16), di creare un vasto dominio delle genti turaniche e turche fra il Turkestan cinese e il bacino del Mar Caspio.

Così, con la sola eccezione della Finlandia e delle tre piccole Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), destinate a una effimera indipendenza sino allo scoppio della seconda guerra mondiale; e con la perdita, altrettanto temporanea, di alcune regioni di confine a favore della Polonia e della Romania, l’Unione Sovietica ritornò in possesso, entro la fine del 1922, di tutti i territori che avevano fatto parte del vecchio Impero zarista. Del quale ereditò automaticamente anche la politica espansionista, sia verso l’Europa che verso l’Asia; ma, questa volta, non sotto l’influsso della ideologia panslavista, bensì all’ombra della bandiera rossa e del credo internazionalista di Marx e Lenin.

samedi, 21 juin 2014

Le grand match du mondial va commencer en Ukraine

RUSSIE - OTAN
 
Le grand match du mondial va commencer en Ukraine

Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Premier point : des tanks russes pénètrent en Ukraine. Des tanks venus de la Fédération de Russie auraient pénétré sur le territoire ukrainien par les postes-frontières tombés aux mains de rebelles pro-russes dans l’est de l’Ukraine, selon la BBC. Les forces armées ukrainiennes leur auraient alors ouvert le feu. Rappelons qu'en Ukraine, les séparatistes ont proclamé deux «  Républiques indépendantes », à Donetsk et à Lougansk, après des référendums tenus le 11 mai. Les forces ukrainiennes ont lancé de leur côté, il y a deux mois, une offensive, qualifiée par Kiev d’ « opération antiterroriste », pour mater l’insurrection pro-russe qui agite l’Est de l’Ukraine. Une question se pose : après les J.O et la révolte de Maîdan fomentée par l'Occident qui avait profité de la fenêtre de tir de Sotchi, Poutine ne profiterait-il pas de l'effet « coupe du monde », de sa fenêtre de tir à lui ?


Jolie revanche des Russes dans ce cas ! De plus, les USA qui sont derrière Porochenko, président Ukrainien depuis le 7 juin 2014, sont en ce moment préoccupés par la percée de l’EIIL en Irak. Poutine le sait aussi : Mondial de football puis crises (Syrie, Irak, Nigeria ), il y a une incapacité reconnue pour l'hyperpuissance de gérer plusieurs crises simultanément. On raconte d'ailleurs, dans les milieux diplomatiques une anecdote. Ce sont des fonctionnaires du Département d’Etat qui font visiter les lieux de leur Ministère aux membres de l'Association des Historiens de la Politique étrangère américaine. En pleine visite, les membres de l'association s'étonnent de ne voir que deux « salles de crise ». A la question de savoir de ce qui adviendrait si trois crises se pointaient en même temps, la réponse du guide fut tout à fait éloquente mi-blague, mi-sérieuse  : « On requalifierait l’une d’elles de non-crise » ! L'Ukraine sera-t-elle la non-crise ? La partition n'est-elle pas déjà dessinée d'ailleurs dans un accord secret entre Obama et Poutine comme le sous-entendait il y a peu Michel Charasse?

Deuxième point : la Russie amorce sa reconversion financière. Les Russes n’agissent pas seulement sur le plan militaire. Ils réagissent aux sanctions économiques imposées par l'Otan en attaquant le pétrodollar. Cela pourrait être le coup fatal comme un pénalty rédhibitoire d'autant qu'il semble avoir été discuté avec les Chinois. La Chine et la Russie - et sans doute aussi l'Inde - semblent s'être mis d'accord sur une stratégie à long terme de dé-dollarisation. Le plus gros producteur de gaz naturel de la planète, Gazprom, vient, en effet, de signer des accords commerciaux avec quelques uns de ses plus gros clients en faisant passer les paiements pour leurs commandes de gaz en euros et non en dollars. Il l'avait fait déjà récemment avec la Chine. En fait, depuis la Libye et la Syrie, les Etats-Unis ont perdu une grande partie de leur crédibilité internationale. Russes et Chinois envisagent de tourner le dos monétairement aux Etats-Unis. C'est une révolution. L'hyperpuissance ne s'en remettra pas ni d'ailleurs le paysage financier mondial d'où cette impression à la fois inquiétante et étrange depuis quelques mois que le système provoquera de lui-même sa propre implosion, comme le dernier coup de queue du crocodile avant de mourir. Neuf clients sur dix de Gazprom sont ainsi passés du dollar à l’Euro dans leurs contrats d'approvisionnement et d'autres grandes entreprises russes utilisent le yuan chinois comme monnaie d'échange. C'est le résultat concret des sanctions occidentales décidées par le Congrès américain contre le bon sens économique. Aux Etats-Unis, à trois mois des élections de mi-mandat américaines, les Républicains n'ont pas cessé de faire monter les enchères contre Obama. La décision irréaliste de geler des fonds et des avoirs russes en représailles d'une «  invasion russe » en Ukraine va à l'encontre des intérêts américains. Ainsi, de multiples comptes russes de grosses entreprises ont été ouverts ces dernières semaines dans les banques d'Asie. C'est ce qu'a affirmé Pavel Teploukine, patron de la Deutsche Bank en Russie, dans un article du dimanche 8 juin du Financial Times. Dans le même temps, le quotidien nous apprenait que les Russes ont retiré leur argent des banques américaines à une vitesse jamais égalée et ce depuis mars, sans même attendre la spirale des sanctions occidentales. Les dépôts russes dans les banques US ont chuté d’un coup de 21,6 milliards de dollars à juste 8 milliards. Ils ont retiré 61% de leurs dépôts en juste un mois ! 

Le système économique américain peut-il sans dommages résister à cette contre attaque légitime des Russes ? La valeur du dollar est élevée artificiellement car le monde commerce en dollar. Cela permet aux Etats-Unis de maintenir des coûts d’emprunt artificiellement bas mais si ce n'était plus le cas, le dollar ne vaudrait plus rien. Le pire, c'est que la cécité de l'Europe est telle qu'elle amorce une sorte de dollarisation par le traité transatlantique. En fait, depuis septembre 2008, nous vivons dans une bulle financière de fausse stabilité monétaire et d'argent garanti. Or les comptes toxiques des banques sont réels. Toutes les bases financières de l'économie n'ont cessé de se détériorer et de se dégrader.

lundi, 16 juin 2014

Why Is the U.S. Afraid of South Stream?

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Why Is the U.S. Afraid of South Stream?

Pyotr ISKENDEROV

Ex: http://www.strategic-culture.org

 
The West is continuing to twist the arms of Russia's partners in building the South Stream gas pipeline. Hot on the heels of the Bulgarian government, Serbia has announced that work will be suspended. Both countries cited the position of the European Commission. But EU energy commissioner Gunther Oettinger refuses to discuss the construction of South Stream in the format of a consultation with Russia, the project's main participant…

While Bulgarian Prime Minister Plamen Oresharski explained the suspension of work on the South Stream project with a request from the European Commission and the need for «additional consultations with Brussels», Serbian Deputy Prime Minister and Energy Minister Zorana Mihajlovic attempted to blame her country’s historical rival in the Balkan region - Sofia. However, she did not refrain from political speculations either. «Until the negotiations between Bulgaria and Brussels and between the EU and Russia are finished, we are going to stand idle. Or until Russia changes its position. In any case, the result of both scenarios is that work in our country is being delayed». 

But the Serbian minister did not mention that «Russia's position» with regard to the South Stream project was set down back in early 2008 as part of Russian-Serbian intergovernmental agreements on energy cooperation. The obligations of the parties with regard to South Stream were the main topic of those documents, which were later ratified by the parliament of Serbia and confirmed by all subsequent national governments. Besides the intergovernmental agreement on energy cooperation, an agreement for Gazprom Neft to purchase a controlling interest in Serbia's oil monopoly Naftna Industrija Srbije (NIS) for 400 million euros and 500 million euros in investment commitments was under discussion. It is not surprising that Serbian Prime Minister Aleksandar Vucic had to correct his cabinet member; he stated that the Serbian government has not made any decisions to suspend the implementation of the South Stream project. 

As for the Russian-Bulgarian agreement on Bulgaria's participation in the South Stream project and the creation of a joint enterprise to this end, that agreement was ratified by the Bulgarian parliament in July 2008. And in May 2009 in Moscow, gas companies from Russia, Italy, Bulgaria, Serbia and Greece signed a summation document on the construction of the South Stream pipeline. In August 2009 this document was supplemented with a protocol signed by Turkish Prime Minister Recep Tayyip Erdogan on the transit of the South Stream pipeline through Turkish territorial waters. Not long after that, the French company Electricite de France joined the number of project participants. 

Such is the true canvas of events which testifies to the groundlessness of references to some kind of incompatibility between the South Stream project and the national interests of Bulgaria and Serbia or international legal practices which supposedly has now come to light. And even the European Commission was well aware of the provisions of the 2008 agreements. We must look elsewhere for the reasons for the unexpected anti-Russian speeches sounding from Sofia and echoing in Belgrade. 

The fact that Prime Minister Plamen Oresharski made his statement on South Stream after a meeting with three high-ranking representatives of the U.S., headed by Senator John McCain, did not escape the attention of the Bulgarian public. McCain did not even bother to conceal the demands the American emissaries made of Sofia and other partners of Russia: «We understand that there are some issues concerning the South Stream pipeline project...obviously we want as little Russian involvement as possible». 

According to available information, Washington has decided to strike a new blow to South Stream, in whose construction German and French companies are also participating, after receiving alarming news from Baku. A source in the Azerbaijani company SOCAR indicated that the French company Total and the German company E.ON might sell their shares in the project for building the Trans-Adriatic Pipeline (TAP): «The German concern E.ON has already announced its intentions to sell its stake in the TAP project. France's Total also announced intentions to sell its participation in the project». Considering that TAP was intended to replace the failed Nabucco project, which the European Union and the U.S. actively lobbied for, Washington and Brussels' panic is understandable.

There is one more thing which is making the Americans nervous. This is connected with a change in the situation on the world energy market. The recently published report of the International Energy Agency, World Energy Investment Outlook 2014, predicts a slump in the «shale revolution» in the U.S., and, most importantly, an increase in the dependence of the United States on gas imports at a time when Saudi Arabia and Iran's export capabilities have decreased. 

In this situation, Washington decided that it was urgently necessary to take control of the main routes for transporting energy resources connecting Russia and Europe. And Washington sees blackmailing Russia, for which Brussels, Sofia and Belgrade were tools, as a completely suitable means of serving its own interests.

mercredi, 07 mai 2014

La crise ukrainienne accélère la recomposition du monde

La crise ukrainienne accélère la recomposition du monde

La crise ukrainienne n’a pas changé radicalement la donne internationale, mais elle a précipité des évolutions en cours. La propagande occidentale, qui n’a jamais été aussi forte, cache surtout la réalité du déclin occidental aux populations de l’Otan, mais n’a plus d’effet sur la réalité politique. Inexorablement, la Russie et la Chine, assistés des autres BRICS, occupent la place qui leur revient dans les relations internationales.

| Mexico (Mexique) | 29 avril 2014
Ex: http://www.voltairenet.org
 
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La crise ukrainienne a mis en évidence la magnitude de la manipulation des opinions publiques occidentales par les grands media, les chaines de TV comme CNN, Foxnews, Euronews et tant d’autres ainsi que par l’ensemble de la presse écrite alimentée par les agences de presse occidentales. La manière dont le public occidental est désinformé est impressionnante, et pourtant il est facile d’avoir accès à une masse d’informations de tous bords. Il est très préoccupant de voir comment de très nombreux citoyens du monde se laissent entraîner dans une russophobie jamais vue même aux pires moments de la Guerre froide. L’image que nous donne le puissant appareil médiatique occidental et qui pénètre dans l’inconscient collectif, est que les Russes sont des « barbares attardés » face au monde occidental « civilisé ». Le discours très important que Vladimir Poutine a prononcé le 18 mars au lendemain du référendum en Crimée a été littéralement boycotté par les médias occidentaux [1], alors qu’ils consacrent une large place aux réactions occidentales, toutes négatives naturellement. Pourtant, dans son intervention Poutine a expliqué que la crise en Ukraine n’avait pas été déclenchée par la Russie et présenté avec beaucoup de rationalité la position russe et les intérêts stratégiques légitimes de son pays dans l’ère post-conflit idéologique.

Humiliée par le traitement que lui a réservé l’Occident depuis 1989, la Russie s’est réveillée avec Poutine et a commencé à renouer avec une politique de grande puissance en cherchant à reconstruire les lignes de force historiques traditionnelles de la Russie tsariste puis de l’Union soviétique. La géographie commande souvent la stratégie. Après avoir perdu une grande partie de ses « territoires historiques », selon la formule de Poutine, et de sa population russe et non russe, la Russie s’est donné comme grand projet national et patriotique la récupération de son statut de superpuissance, d’acteur « global », en assurant en premier lieu la sécurité de ses frontières terrestres et maritimes. C’est précisément ce que veut lui interdire l’Occident dans sa vision unipolaire du monde. Mais en bon joueur d’échecs, Poutine a plusieurs coups d’avance grâce à une connaissance profonde de l’histoire, de la réalité du monde, des aspirations d’une grande partie des populations des territoires antérieurement contrôlés par l’Union soviétique. Il connaît à la perfection l’Union européenne, ses divisions et ses faiblesses, la capacité militaire réelle de l’Otan et l’état des opinions publiques occidentales peu enclines à voir augmenter les budgets militaires en période de récession économique. À la différence de la Commission européenne dont le projet coïncide avec celui des États-Unis pour consolider un bloc politico-economico-militaire euro-atlantique, les citoyens européens dans leur majorité ne veulent plus d’élargissement à l’Est de l’UE, ni avec l’Ukraine, ni avec la Géorgie, ni avec aucun autre pays de l’ex-Union soviétique.

Avec ses gesticulations et ses menaces de sanctions, l’UE, servilement alignée sur Washington, montre en fait qu’elle est impuissante pour « punir » sérieusement la Russie. Son poids réel n’est pas à la hauteur de ses ambitions toujours proclamées de façonner le monde à son image. Le gouvernement russe, très réactif et malicieux, applique des « ripostes graduelles », tournant en dérision les mesures punitives occidentales. Poutine, hautain, se paye même le luxe d’annoncer qu’il va ouvrir un compte à la Rossyia Bank de New-York pour y déposer son salaire ! Il n’a pas encore fait mention de limitation dans la fourniture de gaz à l’Ukraine et l’Europe de l’Ouest, mais tout le monde sait qu’il a cette carte dans la manche, ce qui contraint déjà les Européens à penser à une réorganisation complète de leur approvisionnement en énergie, ce qui mettra des années à se concrétiser.

Les erreurs et les divisions des occidentaux mettent la Russie en position de force. Poutine jouit d’une popularité exceptionnelle dans son pays et auprès des communautés russes des pays voisins, et on peut être sûr que ses services de renseignement ont pénétré en profondeur les pays auparavant contrôlés par l’URSS et lui donnent des informations de première main sur les rapports de force internes. Son appareil diplomatique lui donne de solides arguments pour retirer à l’« Occident » le monopole de l’interprétation du droit international, en particulier sur l’épineuse question de l’autodétermination des peuples. Comme on pouvait s’y attendre, Poutine ne se prive pas de citer le précédent du Kosovo pour vilipender le double langage de l’Occident, ses incohérences, et le rôle déstabilisateur qu’il a joué dans les Balkans.

Alors que la propagande médiatique occidentale battait son plein après le référendum du 16 mars en Crimée, les vociférations occidentales ont subitement baissé d’un ton et le G7 lors de son sommet à la Haye en marge de la conférence sur la sécurité nucléaire n’a plus menacé d’exclure la Russie du G8 comme il l’avait claironné quelques jours plus tôt mais simplement a annoncé « qu’il ne participerait pas au sommet de Sotchi ». Ceci lui laisse la possibilité de réactiver à tout moment ce forum privilégié de dialogue avec la Russie, crée en 1994 à sa demande expresse. Première reculade du G7. Obama de son côté s’est empressé d’annoncer qu’il n’y aurait aucune intervention militaire de l’Otan pour aider l’Ukraine, mais seulement une promesse de coopération pour reconstruire le potentiel militaire de l’Ukraine, composé en grande partie de matériel soviétique obsolète. Seconde reculade. Il faudra des années pour mettre sur pieds une armée ukrainienne digne de ce nom et on se demande bien qui va payer compte tenu de la situation catastrophique des finances du pays. De plus, on ne sait plus exactement quel est l’état des forces armées ukrainiennes après que Moscou ait invité, avec un certain succès semble-t-il, les militaires ukrainiens héritiers de l’Armée rouge, à rejoindre l’armée russe en respectant leurs grades. La flotte ukrainienne est déjà entièrement passée sous contrôle russe. Enfin, autre marche arrière spectaculaire des États-Unis : il y aurait des conversations secrètes très avancées entre Moscou et Washington pour faire adopter une nouvelle constitution à l’Ukraine, installer à Kiev à l’occasion des élections du 25 mai un gouvernement de coalition dont les extrémistes néo-nazi seraient exclus, et surtout pour imposer un statut de neutralité à l’Ukraine, sa « finlandisation » (recommandée par Henry Kissinger et Zbigniew Brzezinsky) [2], ce qui interdirait son entrée dans l’Otan, mais permettrait des accords économiques tant avec l’UE qu’avec l’Union douanière eurasiatique (Russie, Biélorussie, Kazakhstan). Si un tel accord est conclu, l’UE sera mise devant le fait accompli et devra se résigner à payer la facture du tête-à-tête russo-US. Avec de telles garanties Moscou pourra considérer comme satisfaites ses exigences de sécurité, aura repris pied dans son ancienne zone d’influence avec l’accord de Washington et pourra s’abstenir de fomenter le séparatisme d’autres provinces ukrainiennes ou de la Transnistrie (province de Moldavie peuplée de russes) en réaffirmant très fort son respect des frontières européennes. Le Kremlin offrira par la même occasion une porte de sortie honorable à Obama. Un coup de maître pour Poutine.

Conséquences géopolitiques de la crise ukrainienne

Le G7 n’a pas calculé qu’en prenant des mesures pour isoler la Russie, outre le fait qu’il s’appliquait à lui-même une « punition sado-masochiste » selon la formule d’Hubert Védrine, ancien ministre des Affaires étrangères français, il précipitait malgré lui un processus déjà bien engagé de profonde recomposition du monde au bénéfice d’un groupe non occidental dirigé par la Chine et la Russie réunies au sein des BRICS. En réaction au communiqué du G7 du 24 mars [3], les ministres des Affaires étrangères des BRICS ont fait connaître immédiatement leur rejet de toute mesures visant à isoler la Russie et ils en ont profité pour dénoncer les pratiques d’espionnage états-unien tournées contre leurs dirigeants et pour faire bonne mesure ils ont exigé des États-Unis qu’ils ratifient la nouvelle répartition des droits de vote au FMI et à la Banque Mondiale, comme premier pas vers un « ordre mondial plus équitable » [4]. Le G7 ne s’attendait pas à une réplique aussi virulente et rapide des BRICS. Cet épisode peut donner à penser que le G20, dont le G7 et les BRICS sont les deux principaux piliers, pourrait traverser une crise sérieuse avant son prochain sommet à Brisbane (Australie) les 15 et 16 novembre, surtout si le G7 persiste à vouloir marginaliser et sanctionner la Russie. Il est à peu près sûr qu’il y aura une majorité au sein du G20 pour condamner les sanctions à la Russie, ce qui de fait reviendra à isoler le G7. Dans leur communiqué les ministres des BRICS ont estimé que décider qui est membre du groupe et quelle est sa vocation revient à placer tous ses membres « sur un pied d’égalité » et qu’aucun de ses membres « ne peut unilatéralement déterminer sa nature et son caractère ». Les ministres appellent à résoudre la crise actuelle dans le cadre des Nations unies « avec calme, hauteur de vue, en renonçant à un langage hostile, aux sanctions et contre-sanctions ». Un camouflet pour le G7 et l’UE ! Le G7, qui s’est mis tout seul dans une impasse, est prévenu qu’il devra faire d’importantes concessions s’il veut continuer à exercer une certaine influence au sein du G20.

En outre, deux événements importants s’annoncent dans les prochaines semaines.

D’une part Vladimir Poutine se rendra en visite officielle en Chine en mai. Les deux géants sont sur le point de signer un accord énergétique d’envergure qui affectera sensiblement le marché mondial de l’énergie, tant sur le plan stratégique que financier. Les transactions ne se feraient plus en dollars, mais dans les monnaies nationales des deux pays. En se tournant vers la Chine, la Russie n’aura aucun problème pour écouler sa production gazière au cas où l’Europe de l’Ouest déciderait de changer de fournisseur. Et dans le même mouvement de rapprochement la Chine et la Russie pourraient signer un accord de partenariat industriel pour la fabrication du chasseur Sukhoï 25, fait hautement symbolique.

D’autre part lors du sommet des BRICS au Brésil en juillet prochain, la Banque de Développement de ce groupe, dont la création a été annoncée en 2012, pourrait prendre forme et offrir une alternative aux financements du FMI et de la Banque Mondiale, toujours réticents à modifier leurs règles de fonctionnement, pour donner plus de poids aux pays émergents et à leurs monnaies à côté du dollar.

Enfin il y a un aspect important de la relation entre la Russie et l’Otan peu commenté dans les média mais très révélateur de la situation de dépendance dans laquelle se trouve l’« Occident » au moment où il procède au retrait de ses troupes d’Afghanistan. Depuis 2002, la Russie a accepté de coopérer avec les pays occidentaux pour faciliter la logistique des troupes sur le théâtre afghan. À la demande de l’Otan, Moscou a autorisé le transit de matériel non létal destiné à l’ISAF (International Security Assistance Force) par voir aérienne ou terrestre, entre Douchambé (Tadjikistan), l’Ouzbekistan et l’Estonie, via une plateforme multimodale à Oulianovk en Sibérie. Il s’agit rien de moins que d’acheminer toute l’intendance pour des milliers d’hommes opérant en Afghanistan, entre autre des tonnes de bière, de vin, de camemberts, de hamburgers, de laitues fraîches, le tout transporté par des avions civils russes, puisque les forces occidentales ne disposent pas de moyens aériens suffisants pour soutenir un déploiement militaire de cette envergure. L’accord Russie-Otan d’octobre 2012 élargit cette coopération à l’installation d’une base aérienne russe en Afghanistan dotée de 40 hélicoptères où les personnels afghans sont formés à la lutte anti-drogue à laquelle les occidentaux ont renoncé. La Russie s’est toujours refusé à autoriser le transit sur son territoire de matériel lourd, ce qui pose un sérieux problème à l’Otan à l’heure du retrait de ses troupes. En effet celles-ci ne peuvent emprunter la voie terrestre Kaboul-Karachi en raison des attaques dont les convois sont l’objet de la part des talibans. La voie du Nord (la Russie) étant impossible, les matériels lourds sont transportés par avion de Kaboul aux Émirats Arabes Unis, puis embarqués vers les ports européens, ce qui multiplie par quatre le coût du repli. Pour le gouvernement russe l’intervention de l’Otan en Afghanistan a été un échec, mais son retrait « précipité » avant la fin de 2014 va accroître le chaos et affecter la sécurité de la Russie et risque de provoquer un regain de terrorisme.

La Russie a aussi d’importants accords avec l’Occident dans le domaine de l’armement. Le plus important est sans doute celui signé avec la France pour la fabrication dans les arsenaux français de deux porte-hélicoptères pour un montant de 1,3 milliards d’euros [5]. Si le contrat est annulé dans le cadre des sanctions, la France devra rembourser les montants déjà payés plus les pénalités contractuelles et devra supprimer plusieurs milliers d’emplois. Le plus grave sera sans doute la perte de confiance du marché de l’armement dans l’industrie française comme l’a souligné le ministre russe de la Défense.

Il ne faut pas oublier non plus que sans l’intervention de la Russie, les pays occidentaux n’auraient jamais pu aboutir à un accord avec l’Iran sur la non prolifération nucléaire, ni avec la Syrie sur le désarmement chimique. Ce sont des faits que les médias occidentaux passent sous silence. La réalité est qu’en raison de son arrogance, de sa méconnaissance de l’histoire, de ses maladresses, le bloc occidental précipite la déconstruction systémique de l’ordre mondial unipolaire et offre sur un plateau à la Russie et à la Chine, appuyée par l’Inde, le Brésil, l’Afrique du Sud et bien d’autres pays, une « fenêtre d’opportunité » unique pour renforcer l’unité d’un bloc alternatif. L’évolution était en marche, mais lentement et graduellement (personne ne veut donner un coup de pied dans la fourmilière et déstabiliser brusquement le système mondial), mais d’un seul coup tout s’accélère et l’interdépendance change les règles du jeu.

En ce qui concerne le G20 de Brisbane il sera intéressant de voir comment se positionne le Mexique, après les sommets du G7 à Bruxelles en juin et des BRICS au Brésil en juillet. La situation est très fluide et va évoluer rapidement, ce qui va demander une grande souplesse diplomatique. Si le G7 persiste dans son intention de marginaliser ou exclure la Russie, le G20 pourrait se désintégrer. Le Mexique, pris dans les filets du TLCAN et du futur TPP devra choisir entre sombrer avec le Titanic occidental ou adopter une ligne autonome plus conforme à ses intérêts de puissance régionale à vocation mondiale en se rapprochant des BRICS.

Source
La Jornada (Mexique)

 
 

[1] « Discours de Vladimir Poutine sur l’adhésion de la Crimée », par Vladimir Poutine, Réseau Voltaire, 18 mars 2014.

[2] « Henry Kissinger propose de finlandiser l’Ukraine », Réseau Voltaire, 8 mars 2014.

[3] « Déclaration du G7 sur la Russie », Réseau Voltaire, 24 mars 2014.

[4] “Conclusions of the BRICS Foreign Ministers Meeting”, Voltaire Network, 24 March 2014.

[5] « La France vendra-t-elle des armes à la Russie ? », Réseau Voltaire, 20 mars 2014.

mardi, 06 mai 2014

Le torchon brûle entre la Bulgarie et la Commission sur South Stream

Le torchon brûle entre la Bulgarie et la Commission sur South Stream

Ex: http://www.euractiv.fr

 
South Stream map
 
South Stream map

Le ministre bulgare de l'Énergie compte maintenir la construction du gazoduc South Stream, malgré les mises en gare de Bruxelles sur ses incompatibilités avec la législation européenne.

Le projet South Stream ne sera pas arrêté, a affirmé le ministre bulgare de l'Énergie, Dragomir Sotynev à l'issue d'une entrevue avec le commissaire européen Günther Oettinger. 

À la suite de la crise ukrainienne, le Parlement a décidé de susprendre l'autorisation du projet de gazoduc paneuropéen. Selon les eurodéputés, l'UE doit s'approvisionner auprès d'autres fournisseurs que la Russie.

Mais le ministre bulgare, un économiste proche de Sergueï Stanichev, chef du parti socialiste bulgare, a assuré que le chantier allait commencer en juin, comme prévu, repoussant ainsi les demandes du Parlement européen de suspendre la construction.

Il a par ailleurs accusé l'opposition de centre-droit d'avoir apporté de fausses informations à la Commission européenne sur le projet afin de faire capoter sa mise en oeuvre. 

Le ministre bulgare a déclaré que la première station terrestre du South Stream serait construite à deux kilomètres de la côte de la mer Noire, et non à vingt kilomètres comme l'a affirmé l'opposition aux services de la Commission. Ce qui fait une « énorme différence », a-t-il indiqué.

Dragomir Stoynev a expliqué que les directives européennes sur la libéralisation du marché de l'énergie ne sont applicables qu'aux tronçons terrestres et non à ceux situés en mer. Il a certifié que Sofia informera, le cas échéant, la Commission sur les amendements apportés à une loi nationale controversée sur South Stream, avant qu'elle ne soit définitivement adoptée.

En effet, le 4 avril, le Parlement bulgare a adopté en première lecture des amendements à loi sur la politique énergétique qualifiant South Stream d'un interconnecteur et non de gazoduc. Grâce à cette modification, le projet porté par Gazprom échapperait au champ d'application du troisième paquet énergie.

Autre problème de taille, plusieurs pays européens - l'Autriche, la Bulgarie, la Croatie, la Grèce, la Hongrie et la Slovénie - avaient conclu des accords bilatéraux avec la Russie dans le cadre de la construction du gazoduc. Mais le 4 décembre dernier, la Commission européenne a affirmé que ces accords enfreignaient la législation européenne et devaient être renégociés dans leur intégralité.

Gazoduc maritime ou pas ?

Les explications du ministre Bulgare ne semblent pas avoir apaisé les craintes de la Commission au sujet de l'impact de la loi énergétique en cours de discussion. Selon le texte législatif, le projet South Stream serait « un gazoduc maritime » qui ne serait donc pas couvert par les directives européennes. 

Mais pour la Commission, la loi européenne s'applique aux infrastructures qui tombent sous la juridiction européenne, a insité Sabine Berger, porte-parole du commissaire à l’énergie. Et les eaux territoriales bulgares en font partie, ainsi que les zones économiques exclusives du pays.

« La longueur du tronçon terrestre du « gazoduc maritime » n'est pas pertinente dans le cadre de l'évaluation de la Commission de l'amendement proposé [par le Parlement bulgare] au regard de sa compatibilité avec les modalités de la directive sur le gaz », a-t-elle clairement expliqué. L'argument du ministre bulgare sur le lieu de construction par rapport à la côte serait donc irrecevable.

Selon la porte-parole, la Commission s’inquiète également de l'accord intergouvernemental de la Bulgarie signé avec la Russie dans le cadre du projet. L’exécutif européen le considère non conforme à la législation européenne, comme ce fut le cas pour tous les autres accords intergouvernementaux signés par les autres États membres engagés dans South Stream.

Les griefs de la Commission

EurActiv a consulté la lettre envoyée par la Commission aux autorités bulgares, datée du 14 août 2013, qui apporte une analyse détaillée de l'accord conclu entre la Bulgarie et la Russie. Le document de six pages adressé à la vice-ministre de l'Énergie bulgare, Evgenia Haritonova, n'a jamais été rendu public, malgré les pressions exercées par certains députés bulgares.

Cet accord enfreint non seulement les règles relatives au marché européen de l'énergie qui interdisent aux producteurs d'énergie d'être aussi à la tête d'un réseau de transmission, selon le principe de découplage. Cet élément est un point litigieux récurrent dans les sept accords intergouvermentaux conclus avec la Russie. Outre ces griefs, la lettre isole d’autres infractions :

  • La Bulgarie s'est engagée à assurer un régime fiscal privilégié à Gazprom, ce qui, selon la Commission, n'est pas conforme aux règles sur les aides d'État de l'UE ;
  • L'accord intergouvernemental stipule, selon les cas, que la sous-traitance s’applique aux entreprises grecques et bulgares ou que la préférence est donnée aux entreprises des deux parties signataires (la Bulgarie et la Russie), ce qui enfreint là encore aux règles de concurrence européenne ;
  • L'accord intergouvernemental énonce que les tarifs d'exploitation du gazoduc seront fixés par la société établie, ce qui entre, selon la loi européenne, en contradiction avec l'existence même des organes de surveillance nationaux chargés d’approuver les tarifs de transmission.

La porte-parole de la Commission européenne a mis en garde la Bulgarie et a assuré que si les conditions de construction ou d'exploitation du gazoduc n'étaient pas conformes à la législation européenne, alors la Commission se réservait le droit de faire en sorte que la Bulgarie applique la législation européenne.

Liens externes: 

jeudi, 01 mai 2014

El interés norteamericano por Crimea no era altruista

El interés norteamericano por Crimea no era altruista

Ex: http://www.elespiadigital.com

 

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El 5 de septiembre de 2013 en la web de inversiones estatales de los EEUU era publicado  el anuncio de la búsqueda de un contratista para la reconstrucción de la escuela №5 de Sebastopol.

En sus 124 páginas se detallan sus especificaciones, con los esquemas y las fotografías de cómo había que reformarlo y que era necesario hacer. Por ejemplo, reconstruir los techos, sustituir las ventanas, cambiar las puertas a los excusados. Etcétera. Con la escrupulosidad inherente a todo contrato estatal.

El coste declarado: de 250 hasta 500 mil de dólares.

Podríamos pensar en la “bondad” de los amigos americanos con los ucranianos, que paseando el verano pasado en Sebastopol, tropezaron casualmente con la escuela №5 y han mirado dentro. Se han espantado del abandono y la han decidido renovar. Ya que pasean a menudo por las ciudades ajenas y observan para ayudar a los aborígenes. Allí repararán una escuela, aquí reequiparán el hospital, en algún sitio restaurarán la iglesia. Claro, a expensas del propio presupuesto,  es decir, con dinero de los contribuyentes americanos. Como en este caso. Así por el altruismo de los EEUU se ve que han llegado a la crisis económica.

Pero todo esto parece poco creíble. Lo más probable, lo han buscado con unos objetivos secretos. ¿Por qué? Gastar tanto dinero en una escuela ucraniana solo se explica en caso de que en ella estudiarán sus hijos americanos, acostumbrados a los estándares americanos.

¿Cómo es que de repente los gringos el año pasado comenzaron a fijarse en Crimea y pensar en acomodarla, acaso en vez de la base de la Flota del Mar Negro rusa querían instalar en Sebastopol sus dotaciones de la Armada? Mirando el anuncio, la propuesta para la licitación es un mando militar. De la inteligencia de la Navy de los EEUU. Dicho mando militar se encuentra en destinado en la ciudad italiana de Nápoles (Contracting Office Address: Naples, United States). Posiblemente, se trataba de preparar una escuela en perfecto estado para los niños de los oficiales.

¿Hay que asombrarse que Barack Obama se haya ofendido con Vladímir Putin y  sus hombres amables?

Posteriormente a la publicación el anuncio, como las “condiciones” de Crimea han cambiado la licitación es anulada. Ya no importan los niños ucranianos.

Pero hay otro hallazgo. Los americanos también querían reparar el hospital infantil de Simferopol, también a su propia cuenta. La licitación era publicada el 12 de diciembre y cancelada el 14 de abril. Se ve que el interés de los EEUU por los aborígenes ucranianos se ha “perdido” por alguna razón.

mercredi, 30 avril 2014

What Makes Odessa Rise in Protest?

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What Makes Odessa Rise in Protest?

Alexander DONETSKY

Ex: http://www.strategic-culture.org

 

The people of Donetsk and Lugansk regions captured administrative buildings, got hold of arms and declared independence from Ukraine. They are fighting the Kiev regime. The world attention is focused on what is happening there. But there are other hotbeds in Ukraine. Unlike Donbass, the region of Odessa has no border with Russia and it’s not a homeport for the Russian Black Sea Fleet. But local people hit the streets with Russian flags and express their will to get separated from Ukraine.

In ancient times there region was populated by Greeks, the populated areas were mainly concentrated along the rivers Dnieper, South Buh and Dniester, which run directly into the Black Sea. There were other colonies: the ancient Greek cities of Tyras, Olbia and Nikonia trading with Scythian and Cimmerians. 

The successive rulers in the Middle Ages included Nogai Ulus of Golden Horde and many others. 

odessa.gifDuring the reign of Khan Haci I Giray of Crimea (1441–1466), the Khanate was endangered by the Golden Horde and the Ottoman Empire and, in search of allies, the khan agreed to cede the area to Lithuania. The site of present-day Odessa was then a town known as Khadjibey (named for Hacı I Giray, also spelled Kocibey in English). It was part of the Dykra region. However, most of the rest of the area remained largely uninhabited in this period. In 1765 the Ottomans rebuilt a fortress at Khadjibey (Hocabey), which was named Yeni Dünya. Hocabey was a sanjak centre of Silistre Province.

During a Russia-Ottoman Empire war a small Russian force headed by Spanish Grand Don José de Ribas y Boyonswas captured the fortress to let it be a forlorn place for four years more. Then Ribas was assigned to build a city and a home port for a squadron of galleys he was to command. It boosted trade. François Sainte de Wollant, an engineer from Brabant, was responsible for the construction. 

De Ribas was the first mayor of Odessa. The city really thrived under Armand-Emmanuel du Plessis, Duke of Richelieu, and a successor of the legendary cardinal of France. During 12 years of his rule the population grew four times and the city became the heart of the Novorossiysk region. A theatre, a printing-house and an institute were built. Later Richelieu returned to France to hold the positions of Foreign Minister and prime-Minister (twice). 

The first city settlers were Greeks, Italians, Albanians, and Armenians. By the end of XIX century Russians accounted for 49% of the population but one could see people of all nationalities and from all the countries of the world. By 1912 the city’s population increased to half a million, it became the fourth largest city of the Russian Empire after Moscow, Saint-Petersburg and Warsaw. 

The 1917 revolution made it change hands. The cosmopolitan city dwellers were indifferent to the Whites, Reds and British-French occupation force. At that they always treated with disrespect the Ukrainian authorities headed by Michael Grushevsky (Mykhailo Hrushevsky), Symon Petliura and Pavel (Pavlo) Skoropadskyi. They did not believe that those people were able to create a viable state. They were treated as occupants by the Russian speaking population of Odessa. 

By the beginning of WWII the city was populated by Russians (39, 2 %), Jews (36, 9 %), Ukrainians (17, 7 %) and Poles (2, 4 %). Partly the population left the city in front of the offensive by German and Romanian troops, 250 thousand remain surrounded by the enemy. After the Red Army left the city, they faced the hardships of life under occupation. 80-90% of those who remained were Jews, Almost all of them died in the hands of Nazi, Romanian soldiers and Ukrainian nationalists. Ghettos and concentration camps left little chance to remain alive for the victims of Holocaust. 

In the 1980s Jews got an opportunity to leave for Israel. Then the Ukraine’s independence was accompanied by abrupt fall in living standards. It drastically reduced the Jewish population. No matter that, the Jewish community remained to be the most numerous and influential. 

The coup in Kiev tool place in February 2014 had little support among city dwellers. The Kiev rulers are mainly represented by advocates of Ukrainian integral nationalism that appeared in the 1920-30s as a mixture of Italian fascism and German national-socialism with specific Ukrainian features. The Ukraine’s interim government is represented by odious personalities openly advocating Nazi ideology. For instance, Andriy Parubiy, the head of National Security and Defense Council of Ukraine, who tried to register a Nazi political party at the beginning of the 1990s. Back then the Justice Ministry refused to do it because the word «national-socialism» was included in the name. Parubiy changed the order of words to head the Social-Nationalist organization. The program remained filled with xenophobia and racism. The party later became Svoboda. Today it is headed by well-known anti-Semite and xenophobe Oleh Tyahnybok. Svoboda boasts a few members in the Yatsenyuk government. 

Pravy Sector was the main driving force behind the coup. It’s a conglomerate of Nazi oriented groups with Trizub as the leader. It stands for the purity of white race and calls for Hitler times practiced purges. Pravy Sector also comprises the «Patriots of Ukraine» created by Parubiy as a Social-Nationalist youth organization. The «Patriots» served as a basis for establishing the Social-Nationalist Assembly in 2008. The first thing it did was the announcement of war to be waged against other races, the plans to make Ukraine a nuclear state and global domination as a goal to be reached. According to the Assembly’s program, national minorities are to be either assimilated or exiled. 

Many people who live in Odessa lost their next of kin during the days of Holocaust; the prospect of being ruled by the people making part of the Kiev government is unacceptable for them… Ukrainian policemen treated Jews no better than Germans; they advocated the nationalist ideology which practically became state ideology of contemporary Ukraine. The Maidan slogan «Long Live Ukraine. Glory to the Heroes!» is nothing else but the password of the Organization of Ukrainian Nationalists named after Stepan Bandera, an agent of Abwehr who took an oath of loyalty to Hitler. He and Roman Shukhevych, captain of Wehrmacht, deputy commander of punitive force are recognized as heroes. 

No way could this government be acceptable for the people who live in Odessa. They will always oppose it. Trying to see a hand of Moscow here is useless. The reason for people’s sentiments lies in the history of the city. 

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dimanche, 27 avril 2014

Crimean factor in the Russia-Turkey relations

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Author: Andrei Boldyrev

Crimean factor in the Russia-Turkey relations

The Montreux Convention was of strategic importance for both Russia and Turkey since it suggested that in the nearest future the status quo between the two will remain unchanged. When Crimea joined the Russian Federation some analysts assumed that it can change the balance of forces in the region in favor of Russia, making a closed “Turkish- Russian pond” even more closed, leaving little place for Turkey to play the Black Sea – Caucasus card in NATO talks.

On the other hand, one cannot disregard Turkey’s own interests in the Ukrainian crisis. In the 90s and especially in the 2000s the political and economic ties between Ankara and Kiev evolved incrementally, reaching in this decade to a level of strategic partnership. Crimea occupied a special place in Turkish-Ukrainian relations, by being the first best bet for Turkish investors and by providing Turkey with a foothold in the region through the Crimean Tatars. Over the last two decades Ankara has provided them with substantial financial support, by promoting cultural and educational projects. Important role here was played by the Turkish International Cooperation Agency (TICA) .

The importance of the Crimean Tatar factor can hardly be overestimated. The reputation of the Crimean Tatars in Turkey is high, since the Turkic identity developed trough the famous Tatar thinkers such as Ismail Gasprinski and Yusuf Akchura, who are respected by not Turks alone, but well across the Turkic world . One can also name a lot of Crimean Tatar among the Turkish authorities. Finally, the very possibility of the creation of a geopolitical conflict zone near Turkey ‘s border is an extremely unpleasant surprise for Ankara, that is forcing Turkish authorities to seek ways to minimize the consequences of the “Crimean incident”. This was the thinking behind the negative attitude of Ankara towards the Crimean referendum and the loud statements made by the Turkish Foreign Minister Ahmet Davutoglu in March in Kiev, when he promised to provide “political, international and economic support for the territorial integrity of Ukraine”.

It is doubtful, however, that anything of the above mentioned would have a negative impact on the Russian-Turkish relations, largely due to Turkey’s position that some foreign analysts qualify as “an observer’s”. The official Turkish standing is so indistinguishable due to the fact that Ankara is simply unable to take sides on the Crimean issue. Turkey’s role as a patron of the Crimean Tatar population along with NATO membership ticket implies that Ankara should hop aboard the anti-Russian sanctions ship. However, even before the referendum Erdogan received guarantees from Putin that the rights of the Tatar minority would be observed.

Turkey could express solidarity with the United States if it didn’t fear that the United States would use the Straits as a means of pressuring Russia, bringing naval forces on a “rotating basis” and thus creating a permanent grouping of NATO naval forces in the Black Sea region. In this sense, an example of the USS  ”Truxtun” that arrived in early March 2014 in the Black Sea for a one-day exercise with Bulgarian and Romanian ships and stayed there for an indefinite time can be demonstrative. According to the commander of  the USS “Truxtun”, its mission was extended due “to the situation in Crimea”. On April 10 the USS missile destroyer “Donald Cook” entered the Black Sea, on April 11 a French spy ship F.S. “Dupuy de Lome”. From late March to mid-April a French diving support ship FS “Alize” was stationed in the Black Sea and in the nearest future it is expected to be replaced by a French anti-submarine frigate F.S. Thus, we can talk about the fact of attempts to apply political pressure against Russia, however, it is unlikely for Turkey to support its allies in this matter as it provokes an unnecessary confrontation with Russia and reduces the value of Ankara as a regional military leader .

There’s a handful of different opinions in Turkey towards the Crimean situation. First of all, Turkish media outlets don’t see the joining of Crimea to Russia as an act of annexation . Turkish newspapers urged their government to properly evaluate the country’s capacities in determining its policy towards Russia , pointing out to the need to address the systemic crisis in the country firsthand. Foreign observers also note that the corruption scandals and failures of Turkey on the Syrian front dictate caution to Turkish diplomacy in relations with Russia.

Secondly (and most importantly), Turkish economists are predicting Turkey to suffer serious economic consequences, should Ankara join the pro-sanctions camp. Turkish economy is relying heavily on the supply of Russian hydrocarbons. Moreover Russian-Turkish turnover exceeds $33 billion annually, around 4 million of Russian tourists are visiting Turkey every year, leaving behind at least $4 billion. There’s little wonder that Turkish media outlets underline the fact that the value of Ukraine and Russia for Turkey’s foreign policy is not comparable .

Third, the pragmatists in the Turkish government warned the Turkish Foreign Ministry against any harsh actions and statements against Moscow. Turkish Minister for EU Affairs Mevlüt Çavuşoğlu has called the EU approach towards Ukraine a mistake, underling the fact that by presenting Ukrainians with a choice between Europe and Russia — Europe has committed a political mistake. Immediately after the visit of Ahmet Davutoğlu to Kiev, his deputy Feridun Sinirlioglu informed his Russian counterpart Grigory Karasin about the outcome of negotiations in Kiev. The parties stressed that they “will continue their joint efforts to normalize the socio-political situation in Ukraine.”

There is a reason to believe that Turkish analysis of the situation in Ukraine is pretty close to the Russian one. This conclusion can be drawn from from the words of Mevlüt Çavuşoğlu, that accused Brussels of provoking a civil conflict in Ukraine. Thus, it is possible that Turkey itself tends to blame external forces of interfering in its internal affairs, fearing the execution of the Kiev scenario on its own land.

Thus we can conclude that Turkey will not join the anti-Russian sanctions. Under these circumstances, it is likely that Turkey will encourage the parties to engage in a dialogue and will be trying to maintain the integrity of Ukraine. It saves face for Turkey as a NATO member but will not spoil relations with Russia, as the latter itself is not interested in further disintegration of this country. Such balance between Russia and NATO is the most convenient option for Turkey, as its influence on the Crimean Tatars in any case remains unchanged, and its relations with Russia will be maintained at the same level. And since Crimea has now joined Russia, the role of Turkey in NATO as a regulator of the straits may increase, however, in this case Turkey, as it was during the Georgian-South Ossetian conflict in 2008, would have to “filter” the passage of NATO ships trough the Black Sea, in order to preserve the naval balance of forces in the region. While frequent visits of NATO warships in the Black Sea may complicate Russian-Turkish relations, the events of 2008 show, that such complications will not last for long.

Andrei Boldyrev , Ph.D, Research Fellow in the Turkish Department of the Institute of Oriental Studies RAS, especially for the online magazine “New Eastern Outlook”.

samedi, 26 avril 2014

La fière et discrète République de Gagaouzie

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La fière et discrète République de Gagaouzie

Territoire oublié d’Europe d’environ 150 000 habitants seulement, sa petitesse (18323 km²) pouvant pousser à croire que c’est un artefact (ou l’origine d’une célèbre chanson britannique). Au contraire, c’est l’héritage d’une riche histoire, celle de turcs chrétiens ayant une filiation avec les peuplades mongoles qui dominèrent un temps l’Europe, de l’Est en particulier.

Peuple turcophone donc, creuset des tribus Oghouzes qui immigraient vers l’Ouest de l’Europe entre les X et XIIe siècle ap. J.-C.

Ils ont été christianisés au cours du XIXe siècle à partir d’un échange de territoires entre les empires russe et ottoman en 1812 (l’Empire russe obtenant la Bessarabie).

Le chemin de l’indépendance de la Gagaouzie débute dès le XXe siècle. Ainsi, et dès 1906, la République de Komrat est proclamée, sa durée de vie ne dépasse pas les 15 jours. Puis, en 1917 les députés Gagaouzes votent l’indépendance de la Moldavie et leur rattachement à la Roumanie. Rétrospectivement, c’est assez ironique avec la configuration de la fin du XXe siècle. Enfin, en 1940 la Moldavie est annexée à l’URSS. Sous administration soviétique, les revendications gagaouzes sont gêlées.

Le cheminement de l’accession à l’indépendance des Gagaouzes débute, comme beaucoup de choses en Europe de l’Est, par l’invitation du président Boris Eltsine à prendre autant de libertés que possible. Ou plutôt, la célèbre formule eltsienne ne sera là que pour sanctionner un mouvement largement entamé. Les revendications nationalistes gagaouzes se font jour dès les années 1980. En 1990, les Gagaouzes se révoltent lors de la chute de l’empire soviétique. En août 1990 la République de Gagaouzie est autoproclamée. Le leader indépendantiste Sepan Topal est élu à la présidence du Soviet suprême le 31 octobre 1990.

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© Wikipédia.

La Moldavie ne peut que trouver une solution avec cette turbulente république. Chose pressante puisque les évènements gagaouzes sont simultanées à ceux de Transdniestrie… La souveraineté et l’intégrité territoriale de la Moldavie se fera au prix d’une certaine souplesse. Après trois années de conflit, en 1994, la région autonome de Gagaouzie est créée entraînant l’officialisation du gagaouze comme langue de cette région autonome. Les gagaouzes gèrent aussi leur politique éducative désormais.

Les Gagaouzes parlent une langue altaïque qui est relativement différente de la langue turque. Cela n’empêche pas la Turquie d’entretenir des liens culturels fort avec ce territoire. Depuis la dissolution de l’URSS, Ankara conserve des liens par les créations d’un centre culturel turc et d’une bibliothèque en République de Gagaouzie.

Le partage des population s’est fait relativement pacifiquement. Toutes les localités comprenant plus de 50% de Gagaouzes ont été intégrées. Dans les autres au peuplement plus métissés des référendums furent organisés.

Les relations avec les autorités centrales restent encore aujourd’hui très tendues. Par exemple, en janvier 2014, la région autonome de Gagaouzie annonçait son intention de consulter ses administrés par référendum. Ce serait une réaction à l’agenda pro-européen du gouvernement moldave. Il trahirait la volonté de s’unir à terme à la Roumanie. Les résultats du référendum du 2 février 2014, qui a atteint un taux de participation de plus de 70% (présence d’observateurs bulgares, polonais et ukrainiens, entre autres), ont été connu le 3 février : 98,4% des électeurs ont voté pour l’intégration de la Gagaouzie à l’Union douanière (Russie, la Biélorussie et le Kazakhstan) et 98,9% à avoir voté en faveur du droit de la Gagaouzie à déclarer son indépendance, si la Moldavie devait perdre ou abandonner sa propre souveraineté.

Enfin, il reste la question de l’accès à la mer. Sans cela, il y a de quoi s’interroger sur la crédibilité et la profondeur de la volonté d’engagement dans la communauté économique russe. C’est bien en raison de la proximité de la mer Noire et de l’importance de la crise de Crimée de 2014 qui pousse à imaginer que Moscou a quelques gains territoriaux à négocier pour offrir cet accès à la mer.

© Inconnu.

Le drapeau non-officiel des Gagaouzes de tous pays est très original. Il détonne dans le concert européen des drapeaux. Il est à ne pas confondre avec l’emblême de la maison Stark de la fiction « Game of Thrones » (George R. R. Martin). Ainsi qu’il est dit dans l’ouvrage précité (et très bien expliqué à la page 116), ce drapeau est constitué d’une tête de loup rouge (mémoire de l’empire Couman du XIe siècle, peuple turcophone originaire des bords de la Volga ayant émigré en Europe dont les Gagaouzes sont des descendants) dans un cercle blanc, sur fond bleu azur, ce qui détonne en Europe où le lion est roi (et le coq l’exception culturelle). Ce bleu clair est la couleur traditionnelle des Turcs et des Mongols.

Le drapeau officiel est des plus classiques.

Le marquis de Seignelay

Bibliographie :

Atlas des Nations sans Etat en Europe – Peuples minoritaires en quête de reconnaissance, dirigé par BODLORE-PENLAEZ Mikael, éditions Yoran Embanner, Fouesnant, 2010.

jeudi, 24 avril 2014

Vraie cause de la crise ukrainienne : la guerre économique

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Vraie cause de la crise ukrainienne : la guerre économique

par Guillaume Faye

Ex: http://www.gfaye.com

Les sanctions économiques stupides contre la Russie prises par les USA et l’Union européenne sont une énorme erreur qui va d’abord nuire à l’Europe et surtout… à la France. Elles sont un moyen pour Washington de casser le lien économique euro-russe en construction. Voilà les vraies raisons, économiques, de la crise ukrainienne, provoquée par l’Occident (USA et EU soumise) à son bénéfice.  

Les sanctions anti-russes (complètement contraires au droit international, par ailleurs) nuisent d’abord à l’économie russe, qui souffre de son manque de diversification et de sa trop grande dépendance du secteur énergétique pétrogazier, en favorisant une fuite des capitaux russes. La Banque centrale russe a déjà enregistré 50 milliards de dollars d’actifs désertant Moscou. (1)

 Les États-Unis poussent à l’accord de libre-échange avec l’UE, accord inégal qui les favorisera grandement, et que la Commission européenne n’ose pas contrecarrer. Leur but est d’éviter à tout prix  une zone de libre échange euro-russe incluant l’Ukraine, et la naissance d’un espace économique continental euro-russe qui pourrait marginaliser et affaiblir la position économique dominante américaine.

L’accord d’association entre l’Union européenne et l’Ukraine, concocté par la Commission européenne sans mandat clair, fut la provocation  qui déclencha la crise actuelle (voir autres articles de ce blog). Cet accord était économiquement irréalisable, invivable, l’Ukraine n’étant même pas au niveau économique d’un pays émergent. Il violait des conventions passées entre la Russie et l’Ukraine. La crise fut déclenchée lorsque, sous pression du Kremlin, l’ancien pouvoir de Kiev revint en arrière et renonça à l’accord proposé par Bruxelles. Le nouveau pouvoir ukrainien russophobe par idéologie (illégitime au regard du droit international puisque issu d’un coup d’État) entend reprendre cet accord absurde avec l’UE. Les mesures russes de rétorsion contre l’Ukraine (fin du tarif gazier préférentiel et facturations rétroactives) semblent peut-être dures mais elles sont conformes à toutes les pratiques commerciales internationales, par exemple celles qui ont toujours été pratiquées par l’Opep – Organisation des pays exportateurs de pétrole.

Petit rappel historique : début 2012, une zone de libre échange euro-russe avait été programmée par Paris et Moscou, avec l’accord du gouvernement Sarkozy et du Kremlin, incluant l’Ukraine et la Communauté des États indépendants (CEI). Berlin était d’accord, vu que l’Allemagne est dépendante du gaz russe et investit énormément en Russie. Mais Washington et Londres étaient très inquiets, vieux réflexe géopolitique anglo-saxon. D’autant plus que la France avait passé des accords d’exportation de navires militaires de type BPC Mistral avec la marine russe, ce qui constitue pour l’Otan une entorse aux règles implicites, une ligne rouge à ne pas franchir.

La Russie était d’accord pour entrer dans l’Organisation mondiale du commerce en échange d’un partenariat privilégié avec l’UE.  Cet objectif est inacceptable pour Washington : en effet, les Américains exigent la signature de l’accord (inégal) de libre échange avec l’UE qui favorise tous leurs intérêts.

En décembre 2012, Manuel Barroso, président de la Commission européenne,  a rejeté la proposition de M. Poutine d’une zone de libre-échange euro-russe incluant l’Ukraine ; puis, il a proposé  à l’Ukraine de s’associer à l’UE pour une future adhésion, solution qu’il savait impossible. Mais Manuel Barroso, outrepassant ses fonctions et violant juridiquement son mandat, est-il un simple agent de Washington ? N’aurait-t-il pas volontairement provoqué la crise, afin de briser dans l’œuf une union économique euro-russe ?  

Les intérêts économiques européens en Russie  dépassent de très loin ceux des USA, ce qui dérange ces derniers. La moitié des investissements en Russie sont européens. Même proportion pour les exportations russes.

Les sanctions contre Moscou, décidées en fait à Washington et à Bruxelles – l’UE jouant le rôle peu reluisant de filiale des USA –  vont d’abord nuire aux investissements européens et français en Russie et à leurs exportations industrielles et de services. Les sanctions anti-russes risquent de mettre en péril non seulement les importations vitales de gaz russe mais de nombreuses participations françaises dans l’économie russe : industries ferroviaire, automobile, pharmaceutique, travaux publics, luxe, viticulture, aéronautique, agro-alimentaire, grande distribution, défense. Au moment même où la France a un besoin vital d’exporter pour rééquilibrer sa balance des paiements déficitaire et créer des emplois.

Le gouvernement socialiste français, dont la diplomatie est dirigée par l’atlantiste Laurent Fabius (qui n’a pas de doctrine précise à part la vacuité des ”Droits de l’homme”) a enterré la position gaullienne et indépendante de la France. Il s’est aligné, contre les intérêts de la France et de l’Europe (la vraie, pas celle de l’UE) sur la position de Washington. En réalité, Washington et l’UE ont instrumentalisé l’Ukraine au seul bénéfice des intérêts économiques américains.

Il existe un autre aspect fondamental : tout se passe, par ces sanctions économiques anti russes,  comme si Washington voulait créer une crise des approvisionnements gaziers russe en Europe, afin d’y substituer les exportations américaines de gaz de schiste liquéfié, nouvelle source d’énergie extrêmement juteuse pour l’économie américaine. 

 D’un point de vue géostratégique, l’axe Paris-Berlin-Moscou est le cauchemar  des milieux atlantistes, ainsi que son corollaire, un espace économique de complémentarité mutuelle ”eurosibérien”, ainsi qu’une coopération militaro-industrielle franco-russe. Le président russe a eu le tort pour Washington de vouloir esquisser cette politique.

C’est pourquoi la crise ukrainienne – latente depuis longtemps – a été instrumentalisée, entretenue, amplifiée par les réseaux washingtoniens (2) pour tuer dans l’œuf un grand partenariat économique et stratégique euro-russe. Pour découpler l’Europe de la Fédération de Russie.

N’en voulons pas aux USA et ne sombrons pas dans l’anti-américanisme dogmatique. Ils jouent leur carte dans le poker mondial. Seuls responsables : les Européens, qui sont trop mous, faibles, pusillanimes pour défendre leurs intérêts, qui laissent la Commission européenne  décider – illégalement – à leur place.  De Gaulle doit se retourner dans sa tombe.

Mais il n’est pas évident que cette stratégie de la tension avec la Russie et que cette réactivation de la guerre froide soient dans l’intérêt des USA eux-mêmes.  Car cette russophobie – qui prend prétexte du prétendu ”impérialisme” de M. Poutine (3), cette désignation implicite de la Russie comme ennemi principal ne sont pas intelligentes à long terme pour les Etats-Unis. Pour eux, le principal défi au XXIe siècle est la Chine, sur les plans économique, géopolitique et stratégique globaux. Pékin se frotte les mains de cette crise, en spectateur amusé.

Dans l’idéal, il reviendrait à la France et à l’Allemagne (négligeant le Royaume–Uni aligné sur les USA et la Pologne aveuglée par une russophobie émotionnelle et contre-productive) de négocier, seules, avec Moscou, un compromis sur la crise ukrainienne. En passant par dessus la technocratie bruxelloise qui usurpe la diplomatie européenne et qui, comme toujours, marque des buts contre le camp européen. On peut toujours rêver.   

Notes:

1. AFP, 15/04/2014

2. Barack Obama, qui est un président faible de caractère et indécis, ne voulait plus impliquer son pays dans les affaires européennes et russes, préférant se tourner vers l’Asie. Ce qui était réaliste. Mais il a dû s’incliner devant les lobbies qui ont toujours  dirigé la politique étrangère américaine, souvent plus pour le pire que pour le meilleur.

3. ”Impérialisme” minuscule face aux interventions armées des USA et de l’Otan (mais toujours pour la bonne cause) depuis la fin de l’URSS.

lundi, 07 avril 2014

De Kosovo a Crimea. ¿Por qué lo llaman derecho cuando quieren decir poder?

Por Teresa Aranguren*

amerikosovo.jpgPero de qué se escandalizan cuando dicen que se escandalizan de la intervención rusa en Crimea. A juzgar por las declaraciones del presidente de los EEUU, de los dirigentes europeos y por supuesto también de toda una galería de analistas, expertos y tertulianos de eso que llamamos Occidente, nos enfrentamos a un caso, sin precedentes, de violación del derecho internacional y por tanto merecedor de respuesta adecuada, en forma de sanciones, por parte de La Comunidad Internacional. O sea que se trata de defender la legalidad o por expresarlo más filosóficamente de una especie de imperativo moral que nos obliga a actuar. Y la verdad es que planteado así no quedaría más remedio que suscribirlo.

Pero las leyes o rigen para todos o “no son”. Y por eso mismo hay que preguntarse qué pasa cuando quienes se erigen en principales valedores del derecho son al mismo tiempo quienes más descarada e impunemente lo quebrantan. Y sí, me refiero a EEUU y a sus aliados europeos, evitando conscientemente decir Unión Europea porque en cuestión de política exterior no suele ser Unión y menos aún Europea, sino simples “aliados de EEUU”.

Hay comparaciones que para algunos resultan odiosas no tanto porque no vengan al caso sino porque quizás vienen demasiado al caso. Son demasiado esclarecedoras. Como la de Kósovo y Crimea, en su momento respectivas provincias de Serbia y Ucrania, en las que una gran mayoría de la población que no se identifica con la nación a la que teórica o legalmente pertenece alienta reclamaciones secesionistas. Desde el punto de vista jurídico la situación es muy similar por no decir idéntica. Pero lo que valió para Kósovo no vale para Crimea. O viceversa.

Y sí, hay que recordar Kósovo. Hay que recordar que la OTAN, es decir EE.UU y sus aliados europeos, lanzó una campaña de ataques aéreos sobre lo que entonces aún se denominaba Yugoslavia en flagrante violación del Derecho Internacional.

Por supuesto la justificación del atropello fue muy humanitaria. Había que bombardear a unos para supuestamente salvar a otros: la población albanesa de Kósovo. La vía diplomática se dijo entonces estaba agotada. Pero bastaría recordar lo que ocurrió en las conversaciones de Rambouillet, la supuesta “última oportunidad para la paz”, cuando los ministros de exteriores europeos comparecieron sonrientes ante la prensa anunciando que el gobierno yugoslavo aceptaba las condiciones políticas que se le habían planteado y que por tanto la opción militar podía descartarse. Pero en esa rueda de prensa había una ausencia significativa, la de la secretaria de estado estadounidense, Madelaine Albraigh, que mientras los europeos se felicitaban por el acuerdo, estaba reunida con los representantes albano-kosovares, en concreto los dirigentes del grupo armado UCK ( ejército de liberación de Kósovo), para fijar un pliego de nuevas condiciones –entre ellas, la celebración de un referéndum que abriría la vía a la independencia de Kósovo y la presencia de tropas de la OTAN en todo el territorio de Yugoslavia- que difícilmente el gobierno de Belgrado podría aceptar. “No podemos bombardear a los serbios porque los albaneses no acepten” fue el comentario con el que, según una fuente diplomática, Madelaine Albraigh justificó la necesidad de endurecer las condiciones a la parte yugoslava. Así se agotó la vía diplomática. Yugoslavia no aceptó las nuevas condiciones. Poco después, el 24 de marzo de 1999, cayeron las primeras bombas.

Y durante tres meses los aviones de la OTAN bombardearon puentes, fábricas, barrios residenciales, trenes, coches de línea, hospitales, una embajada, un convoy de refugiados, el edificio de la televisión estatal…el concepto crimen de guerra cuadra bastante bien con muchos de aquellos ataques y la verdad no me hubiera importado acudir como testigo presencial de aquellos crímenes si alguno de ellos hubiera sido alguna vez juzgado. Pero siempre supimos que no lo serían. Que el derecho internacional no rige para EEUU y sus aliados. Que no se trataba de derecho sino de poder.

La campaña de ataques de la OTAN terminó con la firma de los acuerdos de Kumanovo, por los que el gobierno yugoslavo aceptaba retirar sus efectivos militares y policiales de Kósovo, devolver y ampliar el estatuto de autonomía al territorio y permitir el despliego de las tropas de la Otan en lo que aún era una provincia de Serbia; a cambio se ponía fin a los bombardeos y se garantizaba la integridad territorial de Yugoslavia, es decir, el estatus de Kósovo como provincia autónoma no sería alterado.

El final de la historia es sobradamente conocido: Kosovo proclamó su independencia con el activo respaldo de los países que habían bombardeado Yugoslavia y que -con alguna variación de matiz, como España que por razones obvias no ha reconocido la independencia de Kósovo- son los mismos cuyos representantes se llevan ahora las manos a la cabeza ante el supuesto desafío a la legalidad internacional perpetrado por Rusia.

Por cierto en el Kósovo independiente donde apenas queda presencia de las poblaciones- serbios, gitanos, goranos- no albanesas, se ubica Camp Bondsteel, la mayor base militar que EEUU tiene en el exterior y que empezó a construirse en junio de 1999, a los pocos días de la entrada de las tropas de la OTAN en el territorio. Además del valor estratégico de su emplazamiento, Camp Bondsteel ha servido, a partir de 2001, como centro de detención clandestino y alternativo a Guantánamo.

El argumento del derecho internacional en boca de algunos resulta obsceno.

* Periodista. Cubrió desde Belgrado y Prístina la campaña de bombardeos de la OTAN en Yugoslavia.

Fuente: Semanario Serbio

Extraído de El Espía Digital.

vendredi, 04 avril 2014

Vérités ukrainiennes

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Vérités ukrainiennes

LE POINT SUR L’UKRAINE

Des vérités qui peuvent déranger

Ex: http://www.terreetpeuple.com

Cet article vient en prolongement du dossier « Pourquoi l’Eurasie » du n° 59 de Terre et Peuple Magazine, en raison de l’évolution de l’actualité de ce pays. On s’y référera pour connaître tous les tenants et les aboutissants de la crise ukrainienne. En bref, l’Ukraine constitue un enjeu géopolitique primordial dans la guerre politico-économique sans merci que livre l’Occident américanisé et mondialisé à la Russie identitaire de Poutine. On connaît bien les preuves de ce containment : adhésion des pays d’Europe de l’Est à l’OTAN, installation d’un bouclier antimissile aux portes de la Russie (Pologne, Roumanie, Turquie), soutien aux révolutions de couleur de toutes sortes (Serbie, Ukraine, Géorgie…) destinées à affaiblir la Russie dans son environnement direct.

Mais les Occidentaux sont allés trop loin et ont offert à Poutine l’occasion de laver l’humiliation vécue avec le bombardement des villes serbes et l’expulsion des Serbes du Kosovo en 1999. Poutine est un grand joueur d’échecs et un champion de judo, la première qualité lui donne l’avantage d’agir avec deux coups d’avance, la seconde lui permet d’esquiver les coups et d’utiliser la force de l’adversaire pour la retourner contre lui. La fessée infligée, en 2008, à la petite Géorgie trop amoureuse de l’oncle Sam, qui a permis de russifier les deux provinces séparatistes d’Ossétie du Sud et d’Abkhazie, aurait dû servir de leçon aux Occidentaux. Que nenni ! Ils ont cru pouvoir arracher l’Ukraine à l’influence du Kremlin.

La première tentative de 2004, dite « révolution orange » permet de mettre au pouvoir des pantins pro-occidentaux, Viktor Iouchtchenko et Ioulia Timochenko. L’incurie et la corruption de leur gouvernement poussent le premier à l’exil et la seconde à la prison. En 2009, par effet de balancier, le prorusse Viktor Ianoukovitch (tout aussi corrompu) revient au pouvoir à l’issue d’élections irréprochables.

Le 21 novembre 2013, Ianoukovitch refuse de signer l’accord d’association avec l’Union européenne. En fait, il n’a pas le choix : cet accord impose à l’Ukraine de pousser progressivement les forces russes hors de Crimée (où, évidemment, l’OTAN ne tarderait pas à s’installer). Dès le lendemain, comme par hasard, la place Maïdan est occupée par des manifestants pro-occidentaux, très bien encadrés. Car, il est vrai que, depuis vingt ans, nombre d’ONG américaines sont à la manœuvre. C’est Victoria Nuland, l’envoyée spéciale judéo-américaine elle-même, qui a déclaré que les Etats-Unis avaient investi plus de 5 milliards de $ dans la révolution ukrainienne et qu’il était temps d’en retirer les fruits (propos auquel elle ajouta la délicieuse phrase : « I fuck European Union » !).

Le 21 février, Ianoukovitch signe un accord avec trois plénipotentiaires de l’Union européenne, le Polonais Sikorski, l’Allemand Steinmeier et le Français Fabius. Cet accord, destiné à ramener la paix civile, met en péril le plan judéo-américain qui exige l’éviction de Ianoukovitch et son remplacement par un gouvernement fantoche. Le lendemain, la place Maïdan s’enflamme, les bâtiments officiels sont attaqués et Ianoukovitch s’enfuit. Des observateurs neutres (il ne s’agit pas des médias français…) remarquent des tireurs sur les toits qui visent systématiquement les policiers ; certaines sources dénoncent la présence d’anciens agents du Mossad pour encadrer les émeutiers (une vieille tradition israélo-étatsunienne). Les forces de l’ordre paient un prix élevé : 17 morts et près de 500 blessés. Mais la démocratie et la liberté sont passées (sic). Tous les pays de l’UE, y compris ceux qui ont signé l’accord de la veille, s’empressent de reconnaître le gouvernement provisoire, au mépris des lois internationales, car il ne s’est agi que d’un coup d’Etat qui a chassé illégalement un président légitimement élu. Qu’à cela ne tienne !

Mais le scénario occidental, si huilé est-il, n’a pas envisagé l’inenvisageable. Comme le renard de la fable « Le corbeau et le renard », Poutine annexe, sans coup férir, la Crimée, acte irréversible s’il en est. Cela lui permet de ramener à la mère-patrie la population russe de la presqu’île, mais surtout de sécuriser la base de Sébastopol et ses annexes. L’ours russe reprend donc le contrôle de la mer Noire et s’ouvre en grand la porte vers la Méditerranée (et la base syrienne de Tartous).

Pour les Ukrainiens, le bonheur promis par l’Union européenne n’est pas pour demain. Comme prévu, Gazprom augmente le prix du gaz russe de plus d’un tiers. Mais les « amis » du peuple ukrainien ne se montrent guère plus généreux : le FMI impose à l’Ukraine un régime drastique avant de verser le premier dollar. Les Ukrainiens auraient dû écouter les Grecs, les Chypriotes et les Espagnols avant de se jeter dans les bras de l’UE. L’avenir de l’Ukraine est d’être un pont entre l’Europe et la Russie, pas d’être la dernière roue de la charrette bruxelloise ou un porte-avions américain au cœur de l’Eurasie.

Voici pour l’état des lieux, en évolution permanente. Mais il faut aussi s’attarder sur quelques zones d’ombre. Les nationalistes ukrainiens sont-ils sincères et manipulés, ou bien sont-ils complices des menées occidentales ? Certains d’entre nous sont fascinés par les mouvements Svoboda ou Praviy Sektor. Les voici déchirés entre leur poutinophilie et une certaine nostalgie. Je vais donc leur permettre de régler ce dilemme. Il ne suffit pas de se promener avec des tatouages et des colifichets pour avoir une conscience politique. La question est plutôt : « dis-moi qui tu hantes et je te dirai qui tu es ».

Le 7 février, soit deux semaines avant le coup d’Etat, Oleh Tyahnibok, leader de Svoboda, parade aux côtés de Victoria Nuland, d’Arseni Iatseniouk, son poulain (futur Premier ministre du gouvernement provisoire) et accessoirement membre de la Trilatérale, et enfin de Viktor Klitschko, le boxeur président du parti UDAR, qui est soutenu par l’International Republican Institute et le National Democratic Institute, tous deux bien connus pour être des courroies de transmission du Département d’Etat américain. On ajoutera que les trois interlocuteurs de Tyahnibok sont juifs, ce qui explique sans doute le soutien indéfectible que leur prodiguent nos produits maison, Fabius et Lévy. De quoi faire se retourner dans sa tombe Stefan Bandera, fondateur de Svoboda, qui ne passait pas pour être philosémite.

Ce n’est pas la première fois que des mouvements qualifiés de populistes, et même de fascistes et de néonazis, se commettent avec les sionistes. Je rappellerai l’étrange voyage en Israël, en 2011, de 35 leaders européens des dits partis : Geert Wilders pour le PW hollandais, Filip Dewinter pour le Vlaams Belang flamand ou Heinz Christian Strache pour le FPÖ autrichien, parmi d’autres (Suédois, Allemands…). J’y ajouterai le pèlerinage de Louis Aliot, vice-président du FN, à Yad Vashem, la même année.

Quant à Praviy Sektor, son cas est encore plus intéressant. Né « spontanément » à l’automne 2013 de l’union de quelques groupuscules qui jugeaient Svoboda trop mou, il est subventionné par la diaspora ukrainienne des Etats-Unis (sic). Bizarrement, en mars 2014, Praviy Sektor fonde une nouvelle structure, Russian Legion, formée de Russes et destinée à lutter contre Poutine, y compris par des actes terroristes en Russie, notamment la destruction de pipelines. Pire encore, Dmitry Yarosh, le chef de Praviy Sektor, a fait alliance avec l’islamiste tchétchène Dokou Oumarov dans le but de « créer un front antirusse de l’Ukraine au Caucase ». Pour finir, j’ajouterai que Yarosh et des leaders du mouvement ont été reçus par l’ambassadeur d’Israël à Kiev, Reuven Din El, et se sont engagés à « lutter contre le racisme et l’antisémitisme ». Ce qui fait tache pour de soi-disant néonazis !

Quant à nous, notre positionnement est clair : les amis de nos ennemis (et les ennemis de nos amis) ne sont pas nos amis. Entre l’Occident (Etats-Unis, UE, Israël et quelques autres) qui veut imposer aux peuples une société mondialisée, déculturée et métissée, et un Poutine qui prône une révolution conservatrice et défend l’identité européenne et blanche, en rejetant l’immigration allogène et en réduisant l’islam conquérant, notre choix est fait.

Il y a vingt ans, j’avais tenté de convaincre mes amis croates et serbes de ne pas se tromper d’ennemis, à savoir les Bosniaques musulmans soutenus par « l’Occident ». Cela n’empêcha pas les néo-oustachis et les néo-tchetniks, les uns partisans de la Grande Croatie et les autres de la Grande Serbie, de s’entretuer au nom de toutes les haines accumulées. Il n’y eut que des vaincus : les Croates ne purent annexer la province d’Herceg Bosna et furent contraints de cohabiter avec les musulmans (qu’ils haïssent), et les Serbes durent abandonner la Krajina et la Slavonie, avant de perdre le Kosovo. Que ceci serve de leçon à tous les nationalistes dont le regard se limite aux rancœurs du passé, particulièrement à l’est de l’Europe.

Il serait ainsi dommage que les nationalistes ukrainiens soient aveuglés par leur russophobie, même si celle-ci est justifiée par le traitement infâme que leur ont infligé les Soviétiques pendant plus de 70 ans. Car l’Ukraine a le malheur de se situer au mauvais endroit tout en étant le « grenier à blé » de l’Europe de l’Est et un réservoir énorme de ressources naturelles. L’Ukraine a tout pour attiser les convoitises. Mais elle est aussi extrêmement fragile, car fracturée entre deux peuples inassimilables : l’Ouest catholique, dont l’histoire et la culture regardent vers la Pologne, la Lituanie et l’Autriche, et l’Est orthodoxe, qui n’a d’yeux que pour Moscou. Ce qui est donc en jeu, c’est un risque immense de guerre civile. Et pire encore. Qu’on se souvienne de ces mots de Jacques Benoist-Méchin, dans L’Ukraine, fantôme de l’Europe : « Et dans ce décor d’enfer, qui défie toute description, cinq armées différentes, venues de tous les coins de l’horizon, vont passer et repasser « comme une râpe » sur le corps sanglant de l’Ukraine : armée polonaise de Pilsudski, armée ukrainienne de Petlioura, armée blanche de Denikine et de Wrangel, armée noire des paysans anarchistes de Makhno, et enfin armées rouges de Staline et de Budienny ». L’Histoire n’est qu’un éternel recommencement.

AC

samedi, 29 mars 2014

Rusia, Crimea y un baño de Realpolitik

por Santiago Pérez 

Ex: http://paginatransversal.wordpress.com

Ultrarrealismo en la crisis ucraniana y en la política internacional de hoy.

La caída de Víktor Fédorovich Yanukovich al frente del gobierno ucraniano generó movimientos en la estructura de poder de la más alta política internacional. Con su alejamiento, Moscú perdió un confiable aliado, quien protegía sus intereses y mantenía al país del este europeo bajo la esfera de influencia del Kremlin. El asenso de Oleksandr Turchínov a la presidencia y su intención de acercamiento a occidente dispararon, en forma virtualmente automática, los mecanicemos de defensa rusos.

No quedan dudas que el proceso interno ucraniano se vio de alguna forma influenciado desde el exterior. Se trata de un país estratégico tanto para la Unión Europea como para la OTAN y la Federación Rusa, tres poderosos actores que, como es de esperar, mueven sus piezas dentro el tablero geopolítico mundial. Pero, al mismo tiempo, sería impreciso adjudicar en forma excluyente a estos jugadores la crisis interna del país. Las diferencias culturales que conviven en el seno de la sociedad ucraniana han alimentado innegablemente las tensiones. En Ucrania hay quienes desean acercarse a occidente y hay quienes desean acercarse a Rusia, elementos suficientes para generar un conflicto, más allá de lo que hagan o dejen de hacer las potencias extranjeras. En definitiva, el fin del gobierno de Yanukovich puede definirse como un fenómeno multicausal, impulsado por fuerzas tanto internas como externas.

Pero más allá de las idas y vueltas de la sociedad ucraniana, el hecho relevante de esta crisis para el análisis de la política internacional es la rapidez, efectividad y contundencia con la que ha operado el Kremlin. Sin prestar mayor atención al derecho internacional (como es esperable de cualquier gran potencia) y a pocas horas del cambio de gobierno en Kiev, fuerzas especiales rusas “ocuparon” en una acción unilateral la estratégica península de Crimea. La relevancia de la cruzada para el equilibrio político regional ha colocado a ucranianos y rusos en el centro de la escena global. Todos los actores de peso dentro del sistema internacional están hoy con la mirada depositada en Crimea.

¿Ha actuado Moscú dentro de la legalidad? ¿Es este accionar legítimo? Desafortunadamente estas son preguntas que poco importan al momento de leer el escenario en cuestión. La anarquía del sistema internacional y la lógica ultrarrealista de Vladimir Putin han permitido que, de facto, sea Rusia quien ejerza la soberanía sobre Crimea. Los reclamos de occidente y del flamante gobierno ucraniano difícilmente puedan superar la etapa retórica o argumentativa. No hay nada que hacer para la Unión Europea, Estados Unidos, el G7 o la mismísima OTAN: los rusos han desembarcado y no se apartarán. La defensa de la base naval de Sebastopol es un tema demasiado delicado para los intereses geoestratégicos de Moscú como para colocarlo sobre la mesa de negociaciones. La única forma de desplazar a los rusos sería por la fuerza, pero los costos de intentar semejante acción transforman a esta alterativa en absolutamente inviable. Nadie en Washington (y posiblemente en ningún lugar del mundo) está pensando seriamente en una acción militar.

Al no ser reconocido ni por occidente ni por la propia Ucrania el referéndum celebrado en la península funciona principalmente como un elemento de presión política. En los hechos, Simferópol dejó de responder a Kiev inmediatamente después de la ocupación rusa, situación anterior a la votación que supuestamente aportó legitimidad y legalidad a la escisión. En otras palabras, con o sin referéndum, la anexión ya se había materializado.

Más allá de reconocerla diplomáticamente o no, las potencias occidentales acabarán por aceptar de hecho la soberanía rusa sobre Crimea y diseñarán sus estrategias de defensa en consecuencia. El statu quo regional se ajustará naturalmente a las nuevas circunstancias y las Relaciones Internacionales continuarán su curso.

Ya lo dijo el canciller ruso, Sergei Lavrov. “Crimea es más importante para Rusia que las Islas Malvinas/Falklands para Gran Bretaña”. Un mensaje conciso, de alto contenido político y emitido en el idioma que solo hablan las superpotencias. Cuando de intereses estratégicos se tarta, el poder (por sobre la legalidad) es lo único que realmente importa.

Fuente: Equilibrio Internacional

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dimanche, 23 mars 2014

Crimea’s Reunification with Russia and National Self-Determination Trends in Europe

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Crimea’s Reunification with Russia and National Self-Determination Trends in Europe, Time for Peoples to Decide Their Own Fates

Dmitry MININ

Ex: http://www.strategic-culture.org

 
The Crimea’s return to Russia is a hot issue, but it’s not something absolutely extraordinary for Europe. Pretty soon the international community’s attention will switch over to other important and unexpected events related to the desire of peoples to implement their right to self-determination. 

As European history shows, the national states normally appear as a result of big wars: Germany and Italy were unified in the 70s of XIX century and new states emerged in the Balkans. As WWI and WWII ended, Europe has been facing vibrant events leading to the creation of new states and reshaping of borders. I thought that the period of 1989 -1992 was the time of the fourth wave of European map reshaping as the Cold War was over and a number of former socialist states dismembered. 23 states have appeared, or 24 entities if Kosovo is counted, in the place of Czechoslovakia, the Soviet Union and Yugoslavia as of 1989. The whole Slav world actually has gone through a transition period leading to the emergence of national states. The number is 13 now, but the figure is believed to bring bad luck, something that makes experts believe one more addition to the count – a state of Carpathian Rusyns - would just hit the spot as this is the only Slav nation still destitute of statehood and national identification. 

A group of Western states led by the United States and other NATO members actually inspired the fourth wave using the energy of nationalism to weaken a geopolitical adversary. But once started, a chain reaction is hard to stop. It has not been extinguished during all these twenty years but was rather shouldering waiting for the time to come. Back in history, a national partition used to happen after two-three generations, nowadays one generation is enough. Now the fifth wave of national identification is striking Europe and it is not necessarily linked to wars. Some peoples, especially in the West, continue to face the trends to partition, while others are in the process of unification, like in the case of Russia, for instance. Crimea is a more a left-over from the 1990s, and the main events are expected to take place soon not in the post-Soviet space, but rather in the «united» Europe. The Crimean referendum may influence the situation to some extent, but, in essence, it’ll be a backlash to the process launched by the West. These are the whims of Nemesis, the goddess of revenge. 

First of all, new tensions are getting high where national problems are still waiting for final solutions, or in the states of the Western Europe, and it is a heavy burden to be shouldered by Brussels. The risk of the use of force is high. Croats in Bosnia and Herzegovina have been dreaming about a national entity - the Croatian Republic of Herzeg-Bosnia - or joining Croatia since the days of the war. Serbs still cherish plans for the Republic of Srpska to become independent or become part of Serbia. Bosnian Muslims have been staging social protests for a few months, it’s not about economy only, they also raise the issue of national identity. The regional Muslim movement for autonomy in the Sanjak situated between Montenegro and Serbia would like to unite with the people of the same religion living in the north to make Greater Bosnia emerge. 

Serbs in In Kosovo-Mitrovica are especially elated by the Crimea events. They intend to intensify the pressure on Belgrade to make it insist they stay out of Pristina control. The Albanians in western Macedonia proclaimed the foundation of the Republic of Illirida in 1990, now they want the status of federal entity. In Bulgaria the trend to claim the larger part of eastern Macedonia is on the rise. Bulgarians believe the land rightfully belongs to them. Romania sets its eyes on Moldavia. Inside Romania the Székely Hungarians have intensified their activities. Almost all of them have Hungarian passports and demand self-determination for a large part of Transylvania as the first step on the way of unification with motherland. Slovakia and Serbian Voevodina face the same problems with Hungarian population. Formally Poland unambiguously supports the Kiev government, but experts have already expressed the opinion that the time has come to return the eastern kresy (borderlands in western Ukraine which is a former territory of the eastern provinces of Poland) into Rzeczpospolita (Poland). 

In Western Europe separatism has two trends: non-recognition of existing borders (in Belgium, Spain, Great Britain, Italy, France, Denmark and Germany) and negative attitude towards the EU itself. The November 2012 survey held in the UK showed the majority (56%) say «no» to the European Union and would prefer to leave. Prime Minister David Cameron has already said it’s a cut-and dried decision to hold a referendum on the issue. Germany follows the trend: 49% respondents there said they would be better off without the EU. Adding the sinking Ukraine to the pile of EU burdens will obviously strengthen the trend. The introduction of large-scale sanctions against Russia will inevitably lead to the general deterioration of economic situation in Europe putting the EU on the brink of disintegration. Some scenarios envision Europe as a federal state comprising 75 national states. This vision belongs to Daniel Cohn-Bendit of Germany’s Green Party and Guy Verhofstadt, former Prime Minister of Belgium, an author of a popular manifest on federal Europe. 

Talking about individual states, the partition of Great Britain is seen as inevitable. Simon Thomas, a Welsh Plaid Cymru party politician, believes that the 2014 referendum in Scotland will become an icebreaker moving across all the parts of the UK. According to him, the promulgation of Scotland’s independence means the partition of Great Britain. He believes that Scotland is the best example. Still Northern Iceland and Wales are in for changes. Simon Thomas thinks that it would be better for Wales to stay in the united Europe in case it leaves the UK. Not much time is left till the referendum slated for September 18 takes place. Scotland is attentively following the events in Crimea. It would be relevant to ask why something allowed once should be forbidden in other cases? Is it that "Gods may do what cattle may not»?

Germany still remains one state due to the inertia of recent unification, but it may not be immune to partition in the long run. It consists of different parts with the dialects that differ more than Russian and Ukrainian languages, for instance. 

The trend is on the rise – those who live in Bavaria and Baden-Württemberg don’t want to share with «hangers-on» from other, less prosperous, German lands. Wilfried Scharnagl, a high-standing member of the ruling Bavarian Christian Social Union party, has recently published his sensational book Freedom from Germany trying to wake up the Bavarian political establishment which has been surreptitiously dreaming about independence. 

In Italy the Northern League (Lega Nord) has been gaining strength since the 1960-70s cherishing dreams about separating from loafers, mafiosi and hedonists in the south by uniting into Padania, the land of hard working northerners. These kinds of ideas have become most popular as the crisis set in making the regions tighten their belts to increase aid to southern provinces deep in debt. Alto Adige (South Tyrol) is mainly populated by Austrians; it became part of Italy after WWII. The separatist trends there are on the rise. Venice has already launched a five-day referendum on splitting from Rome. The poll was organized by local activists and parties, who want a future state called Republic of Veneto. This would be reminiscent of the sovereign Venetian republic that existed for more than 1,000 years. 

 

In France, the voices calling for autonomy or even secession from Paris are heard louder in Corse, Alsace and Bretagne. 

In Spain Catalonia is demanding independence with Galicia and the Basque country ready to follow suit. A referendum in Catalonia is slated for November 4, no matter the central government in Madrid opposes the action. Barcelona has no intention to retreat. Here is a one more precedent relevant to the referendum just held in Crimea. 

 The attempts to keep Flanders and Wallonia together as parts of Belgium stymie, and Brussels, the European capital, risks remaining an entity with vaguely defined status. 

There are overseas forces that have fostered the separatist trends guided by the good old «rule and divide!» principle. Of course, the USA would like to see divided the West and the East of the continent. The separatist sentiments, limited by the West against the background of opposite trends picking up steam in the East, hardly meet the Washington’s goals. The US has failed to take into consideration just one thing. The peoples’ right to self-determination does not only presuppose a partition in case they don’t want to live together, but also unification if it meets the prevailing aspirations. Russia has overcome the negative trends emerged as a result of imposed disintegration and stepped on the different path of consolidation. That’s why the White House is so vibrant in its opposition to what is happening around Ukraine. The great strategic plan of «continents big game» is getting frustrated. As the history goes to show – Crimea is just the first step. 

mercredi, 19 mars 2014

La Crise ukrainienne et la troisième voie géopolitique

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La Crise ukrainienne et la troisième voie géopolitique

par Jure Vujic

Ex: http://www.polemia.com

«L’Eurasisme russe aurait tout intérêt à ménager les nationalismes européens de cet espace centre-européen et de l’espace pontique de la mer Noire y compris l’Ukraine, plutôt que de nier leurs identités nationales et d’attiser leurs positions russophobes.»

♦ Polémia a reçu de son contributeur franco-croate, Jure Georges Vujic, une analyse géopolitique de la crise ukrainienne. Donner accès à la diversité des points de vue fait partie de notre ligne éditoriale. Nous la soumettons donc à la réflexion de nos lecteurs.
Polémia

Il semblerait que la crise ukrainienne divise la mouvance nationale et eurasiste en deux camps, le premier soutenant l’opposition nationaliste ukrainienne en tant que vivier identitaire et vecteur national-révolutionnaire, le second, le camp des «eurasistes» russophiles, qui, pour des raisons géopolitiques anti-atlantistes, soutiennent l’intervention russe en Crimée. Pourtant, cette vision binaire  demeure quelque peu simplificatrice. C’est pourquoi je réitère « qu’il faut savoir raison garder » et que la démesure dans l’analyse géopolitique, le jusqu’au-boutisme et l’engouement belliciste ne font que conforter une fois de plus l‘hybris  et le conflit entre des peuples européens et, une fois n’est pas coutume, sur la terre européenne.

Bien sûr, il faut rappeler que  suite à la décision du gouvernement élu de ne pas signer d’accords commerciaux avec l’Union européenne, le camp atlantiste et américain a tenté d’orchestrer une seconde « Révolution orange » cette fois-ci en s’appuyant et en manipulant des groupes ultranationalistes ukrainiens aux fins  d’installer un pouvoir pro-occidental à Kiev. Le nationalisme ukrainien extrêmement dynamique est autant antirusse qu’antioccidental alors que les arguments de l’adhésion à l’UE servent uniquement de levier d’émancipation de la tutelle russe. Par ailleurs, l’expérience de la Hongrie de Orban démontre très bien que l’on peut être dans l’UE et mener une politique nationale et souverainiste.

D’une part, je ne suis pas convaincu qu’il s’agisse d’une confrontation entre une vision eurasiste pro-russe et un nationalisme ukrainien pro-atlantiste. Il faut  avoir à l’esprit la question de la légitimité des manifestations du peuple ukrainien systématiquement spolié et paupérisé par des régimes corrompus et oligarchiques successifs, tour à tour pro-occidentaux et pro-russes (la famille du présidentViktor Ianoukovitch s’est enrichie de près de 8 milliards d’euros par an). D’autre part, l’opposition entre le sud-est russophone de l’Ukraine et l’EuroMaidan s’est cristallisée en raison du ressentiment antirusse qui s’est développé dans la partie occidentale de l’Ukraine. Si une partie des habitants s’est organisée en formations paramilitaires et a manifesté contre le nouveau gouvernement de Kiev, c’est parce que la révolution a gagné à ses yeux une connotation antirusse plutôt que pro-européenne.

Il est en effet déplorable que l’Ukraine soit entre le marteau et l’enclume, et  n’ait finalement que le choix entre l’intégration européenne pro-atlantiste et la soumission au voisin russe. C’est dans les leçons de l’histoire européenne qu’il faut peut-être chercher la solution. « L’Ukraine a toujours aspiré à être libre » a écrit Voltaire dans son Histoire de Charles XII, à propos de l’hetman Mazeppa. L’identité ukrainienne s’est cimentée il y a une dizaine de siècles et n’est pas près d’être russifiée, quand bien même son histoire reste étroitement liée à la Russie. L’Ukraine est et restera un pays écartelé entre le géant eurasiatique qu’est la Russie à l’est, et l’Europe centrale beaucoup plus proche de l’Occident. Etymologiquement le nom d’’Ukraine est associé à celui de « marche », et c’est ainsi qu’il faut la traiter en tant qu’espace géopolitique pontique et médian. C’est pourquoi la Russie aurait tout intérêt à traiter le peuple ukrainien et l’identité ukrainienne sur un pied d’égalité et de réciprocité plutôt qu’obstinément nier leur existence nationale, les associer à des «petits Russes», ce qui ne fera qu’exacerber le sentiment ukrainien antieurasiste et antirusse.

La Crimée se prononce pour son rattachement à la Russie

L’identité ukrainienne tout comme l’histoire des peuples cavaliers, de souche européenne, fait partie intégrante de notre héritage indo-européen le plus ancien tout comme le constitue l’héritage slavo-russe et orthodoxe. Il faut rappeler que c’est un chercheur ukrainien Iaroslav Lebedynsky, qui enseigne à l’Institut national des langues et civilisations orientales, qui nous a livré de remarquables  récits historiques sur les Scythes, les Sarmates, les Saces, les Cimmériens, les Iazyges et les Roxolans, les Alains, etc. qui témoignent de l’identité pluriséculaire de ces peuples de souche européenne sur cet espace eurasiatique qui va de l’Europe centrale jusqu’aux confins de la Sibérie orientale, espace qui ne possède pas de frontières naturelles comme l’expliquait le général Heinrich Jordis von Lohausen dans son traité de géopolitique. En effet, l’importance géostratégique pontique de l’Ukraine, bordée par la mer Noire et la mer d’Azov au sud et située entre l’Europe occidentale et la masse continentale eurasiatique, dépend en majeure partie de sa configuration frontalière. Les régions historiques ukrainiennes, comme la Volhynie et la Galicie (jadis polono-lituaniennes), la Bukovine (jadis moldave) ou la Méotide (jadis tatare criméenne), s’étendent  également sur les pays voisins, ouvrant ainsi une profondeur stratégique à la Russie au nord et à l’est, à la Biélorussie au nord, à la Pologne, à la Slovaquie et la Hongrie à l’ouest et à la Roumanie et la Moldavie au sud-ouest.

Bien sûr, il convient d’un point de vue géopolitique de soutenir le projet eurasiste russe comme facteur de rééquilibrage multipolaire face aux menées néo-impériales atlantistes, mais ce projet géopolitique grand-européen eurasiste doit être avant tout un projet fédérateur, de coopération géopolitique, fondé sur le respect de tous les peuples européens, sur le respect des souverainetés nationales et sur le principe de subsidiarité. L’affirmation agressive et exclusiviste de la composante slavo-orthodoxe et « grand-russe » dans le projet eurasiste, surtout dans les territoires centre-européens et du sud-est européen catholiques qui gardent un mauvais souvenir de l’expérience soviétique, ne fera au contraire que raviver les tensions entre les peuples européens, ce qui fait le jeu de la stratégie atlantiste qui divise pour régner. Par ailleurs, tout comme il convient de dénoncer la fragmentation ethno-confessionnelle qui est à l’œuvre au Moyen-Orient en tant qu’instrument de domination atlantiste, il convient aussi de se méfier des constructions annexionnistes ou irrédentistes linguistiques « grand-russes » sous prétexte d’unification « des terres russophones » qui peuvent à long terme avoir les mêmes effets dissolvants en Eurasie dans le Caucase et en  Europe centrale, car le même argument linguistique pourrait justifier la revendication séparatiste d’ethnies ou de populations non-européennes sur le sol européen. En effet, le déchaînement du nationalisme ethno-confessionnel à l’ouest de l’Ukraine inquiète les minorités ethniques et notamment les Polonais, les Hongrois et les Roumains. Les Tatares de Crimée qui semblent avoir déjà choisi leur rattachement à la Russie ne peuvent pas rester à l’écart de la recomposition en cours à l’ouest et au sud-ouest d’Ukraine. Ainsi le groupe  ethnique des Gagaouzes qui forment une communauté homogène en Moldavie s’est déjà prononcé par référendum pour l’intégration eurasienne. On assiste également à une montée en puissance du facteur turcophone dans la région du Caucase et dans les Balkans (en Bosnie Herzégovine), plus particulièrement dans le contexte des processus d’intégration dans l’espace eurasien.

Il faut rappeler que l’Ukraine, au-delà du contexte très particulier de ce pays (en réalité constitué de deux ensembles historiquement antagonistes, l’un catholique-uniate, tourné vers l’ouest et l’autre orthodoxe proche de la Russie), constitue un exemple des possibilités de manipulation d’un sentiment national. Pourtant je ne suis pas certain qu’un recentrage « grand-russe » de l’Ukraine constitue un pôle de stabilité géopolitique eurasiatique à long terme dans la mesure où le sentiment antirusse en Ukraine est fortement enraciné et cela depuis plusieurs siècles. La perception du projet eurasiste vu de Paris, Moscou, Vienne, Berlin, Zagreb, Kiev est très différente et variable. Dans les ex-pays du bloc soviétique, l’eurasisme est souvent perçu comme une idéologie néocoloniale «  grande russe  » et post-soviétique, car ces pays ont retrouvé leur indépendance nationale et étatique dans les années 1990 après la chute du Mur de Berlin (et non au XVIIIe ou XIXe siècle), et il est compréhensible qu’ils restent récalcitrants à tout projet fédérateur, multinational et/ou néo-impérial, alors que d’autres pays européens qui ont vécu « leur printemps des peuples » en 1848 ou avant, sont plus ouverts au discours eurasiste grand-continental. Il faut alors tenir compte de ces variables pondérables de psychologie collective (au même titre que les fameuses guerres de représentation) lorsqu’on adopte une position géopolitique  pan-européenne. L’eurasisme ne devrait pas évoluer vers un projet néocolonial et impérialiste (L’idée d’empire n’est pas réductible à l’impérialisme) mais rester fidèle à l’idéal de l’empire en tant qu’unité organique et œcuménique dans la diversité. Cet eurasisme géopolitique n’a jamais été aussi cohérent et  stable que lorsqu’il a été respectueux des idendités, et des diverses composantes impériales comme cela a été le cas lors de l’alliance austro-franco-russe du XVIIIe siècle, de la Sainte-Alliance et de l’Union des Trois Empereurs, voire en tant que projets d’alliance franco-germano-austro-russe de Gabriel Hanotaux (1853-1944), avant 1914.

Il convient également de constater que le projet eurasiste « grand-européen » ne peut reposer uniquement sur un pôle russo-centré, et que si l’on raisonne en termes de continent (de l’Atlantique à la Sibérie), il semblerait que ce projet soit à double vitesse, l’un russo-centré autour de l’union eurasiatique qui s’articule autour de la composante russo-slavo-orthodoxe et l’autre que l’on peut qualifier d’eurasiste-médian ou centre-européen (voire germano-slave mitteleuropéen) qui s’étend de l’Europe occidentale héritière de l’empire Carolingien (héritière de l’Empire romain) et l’eurasisme central-danubien qui s’étend le long de l’ancien limes danubien, à son embouchure dans la mer Noire, jusqu’à l’espace scythien de la Dobroudja, à la charnière de la Roumanie et de la Bulgarie actuelles. Le point de jonction de l’Eurasie russo-centré et de cette Eurasie centre–européenne est l’Ukraine qui de par sa position pontique relie et verrouille ainsi l’espace centre-européen pannonien et la profondeur eurasiatique vers l’est. Pourtant ce qui différencie àl’heure actuelle ces deux projets eurasiens complémentaires, c’est l’héritage historique de l’Union soviétique. En effet l’ensemble des peuples rattachés à la couronne austro-hongroise (Croates, Slovaques, Hongrois, Tchèques) gardent un mauvais souvenir de la férule communiste et des Etats multinationaux fantoches tels que la Yougoslavie titiste et la Tchécoslovaquie en tant que zones tampons et cordons sanitaires créés par la politique britannique dans les Balkans. C’est la raison pour laquelle l’Eurasisme russe aurait tout intérêt à ménager les nationalismes européens de cet espace centre-européen et de l’espace pontique de la mer Noire y compris l’Ukraine, plutȏt que de nier leurs identités nationales et d’attiser leurs positions russophobes.

Ainsi la crise ukrainienne peut être l’occasion ou jamais de réfléchir et de peut-être redéfinir les axes géopolitiques d’une Eurasie triarchique reposant sur la triplice géopolitique carolingienne-occidentale/catholique autro-hongroise et centre-européenne/slavo-orthodoxe eurasiatique.

Jure Georges Vujic
11/03/2014

Correspondance Polémia – 16/03/2014

Turkey and Crimea

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Turkey and Crimea

Nikolai BOBKIN

Ex: http://www.strategic-culture.org

 
On 16 March, the people of Crimea will independently determine their own future. Opinion polls show that the overwhelming majority of Crimeans (75-80 percent) have already decided in favour of becoming part of the Russian Federation. Crimea is being given a unique opportunity to reunite with its historic homeland. Several days ago, Barak Obama called the overthrow of the legitimate authorities in Kiev a triumph of democracy. Now Crimea will give President Obama a lesson in democracy... 

By supporting the coup, the US has laid the foundations for a broad restructuring process of the Ukrainian state into a looser confederation of regions. The principle of self-determination, to which the people of Crimea are adhering, is enshrined in international law, while non-recognition of the results of the people’s will would be the latest evidence of the American establishment’s commitment to the project of creating a ‘Ukrainian Reich’ within former Ukraine. The Western media are lying when they talk about the so-called full solidarity of all NATO countries with the American position. In truth, Washington’s position is not supported by many of those with a special interest in Crimea and these include Turkey, since Crimea is home to Crimean Tatars, who are ethnically close to Turks.

Ankara is worried about the risk of deepening the political crisis in Ukraine. While offering to accept the preservation of Ukraine’s territorial integrity as a basis for resolving the conflict, the Turkish Foreign Ministry is nevertheless warning Kiev against creating military tension in Crimea, where «our kinsmen – the Crimean Tatars» live. In the past, Ankara has done much for Crimea to become the Tatars’ homeland again. Kiev, however, has never given the development of Crimea much attention, removing up to 80 percent of the autonomous republic’s revenue and giving nothing back in return. For Turkey, with its highly-developed tourism industry, the deplorable state of tourism in Crimea, as well as the peninsula’s infrastructure, which has fallen into complete disrepair and has not been modernised since Soviet times, are compelling evidence of Kiev’s disdain for the fate of the Crimean people. Many in Turkey well understand why Crimea becoming part of Russia is the natural desire of the overwhelming majority of those living on the peninsula. Turkey’s Foreign Affairs Minister, Ahmet Davutoğlu, believes that «Crimea should not be an area of military tension; it should be a centre of prosperity, tourism, and intercultural relations».

At the same time, the Turkish government is being forced to consider its own position with regard to Crimea, and the internal forces that adhere to the opposite point of view. In some parts of the country, the compatriots of Crimean Tatars are organising demonstrations against Crimea becoming part of Russia. Zafer Karatay, a Tatar member of the Turkish Assembly, is calling for Ankara to intervene in Crimea and a confrontation with Russia. His opponents respond: «What business do we have in Crimea? Why is Crimea so important?» Well, the Kiev scenario of the illegal overthrow of President Yanukovych may well be used by the Americans to change the leadership in Turkey. In this regard, Prime Minister Erdoğan has clearly stated that it is not a case of Turkey choosing between Moscow and Washington or Ukraine and Russia, it is a case of choosing between a tool of destabilisation like the pro-American Maidan protests and adhering to the fundamental principles of international law. 

Many Turkish politicians disliked Davutoğlu’s hasty trip to Kiev immediately following the coup. Given that Ankara does not have an answer to the question «What should Turkey do now?», such a visit is definitely cause for bewilderment. Davutoğlu’s statement, meanwhile, «that Crimean Tatars are currently the main apologists for Ukraine’s territorial integrity» shocked many observers. They reminded the minister of the number of Turkish compatriots in the 46-million strong Ukraine, as well as the fact that Turkey had a strategic partnership with the previous legitimate authorities in Kiev to which neither Turchynov nor Yatsenyuk are able to add anything except a hatred of Russia. Davutoğlu’s assurances regarding the fact that the new regime in Kiev «will take all necessary measures to protect the rights of Turks living in Crimea» has also given rise to scepticism. It is unlikely that the fascist authorities in Kiev currently threatening Ukraine’s multimillion Russian population are going to concern themselves with the fate of the relatively small Crimean Tatar community. Pragmatists in the Turkish government have warned the head of the Turkish Foreign Ministry, who has promised Kiev «political, international and economic support to protect Ukraine’s territorial integrity», against any hasty actions and even statements towards Moscow. 

Commenting on events in Kiev, the Turkish Minister for EU affairs, Mevlut Çavuşoğlu, referred to the European’s approach towards Ukraine as completely wrong, and that asking Ukrainians to choose between Europe and Russia was a grave political mistake. «Russia»,Çavuşoğlu pointed out, «is part of the European continent.» Turkey still does not understand why Brussels, which thinks that Turkey does not meet its high democratic standards and for many years has refused Turkey’s accession to the EU, has decided that the new Ukraine is more democratic than Turkey – and that is even after the bloody coup carried out by Western stooges. There is the feeling that supporting the new regime in Kiev could cost Erdogan’s government dearly.

Should Turkey join sanctions against Moscow, the country’s economists are predicting the collapse of the national economy, which is closely tied to Russian hydrocarbon supplies. They consider energy exports from Russia to be «a national security issue» and are warning that even Europe, which is also dependent on Russian gas, has not allowed itself to cross the line of open hostility to Moscow, despite unprecedented pressure from Washington. Turkey is still a growing market for Russia, and its gas supplies to the country increase by 4-5 percent annually and exceed 30 billion cubic metres. There is a desire to diversify Ankara’s sources, but there is no real alternative to Russian blue-sky fuel. America’s promises to replace Russian gas with its own shale surrogate in connection with calls to support anti-Russian sanctions are eliciting a smile from Turkish experts. The infrastructure needed for the supply of liquefied fuel would be more expensive than the cost of Russian supplies for the next 5-7 years. And it is not just Turkey’s energy economy that will lose out. Trade between Russia and Turkey exceeds 33 billion dollars, and nearly four million Russians visit Turkey every year, leaving behind at least USD 4 billion. 

The Turkish media has also made explicit references to the fact that the significance of Ukraine and Russia for Turkey’s foreign policy is incomparable. Turkish political observer Fuat Kozluklu, meanwhile, writes that Russia’s decision to use force if necessary to protect Ukraine’s Russian and Russian-speaking population was a good deterrent to the Ukrainian radicals and the Western politicians watching over them. Putin’s determination to stand up for the interests of Russians in his neighbouring country has revealed Russia’s real strength, while Moscow’s actions have the sole intention of preventing the further escalation of tensions in Ukraine. It is also from this point of view that many Turkish analysts are regarding the forthcoming referendum in Crimea.

 

vendredi, 14 mars 2014

On the Russian Annexation of Crimea

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On the Russian Annexation of Crimea

By Guillaume Faye 

Ex: http://www.counter-currents.com

Translated by Greg Johnson

The Crimean parliament has called for independence from Ukraine and a referendum over joining the Russian Federation. Thunder in the chancelleries! The Crimean authorities are illegitimate because they are self-proclaimed. Who is right, who is wrong?

Barack Obama said on March 6 that the planned referendum for joining Russia would be undemocratic and illegal. (See previous articles on this point). He was followed in this analysis by the European governments. So, the decisions of the people are supposed to be  illegitimate if they do not support the interests and ideology of what the Russians call the “Western powers.” Democracy is, therefore, a rubber standard.

Here we encounter a very old problem: the principle of nationality in the ethnic sense against the same principle in the political sense. Let me explain. Politically, the detachment of Crimea from Ukraine is actually illegal under the constitution of Ukraine, a Republic “one and indivisible” like France. But Ukraine is a very unstable, indeed divided nation state. Imagine that tomorrow in France a majority of Bretons or Corsicans wanted to unconstitutionally secede.[1] Worse still, imagine a future region of France populated after decades of colonization migration by an Arab-Muslim majority desiring autonomy or attachment to an overseas Mediterranean country . . .

The same problem happens all over the world: in Spain with the Catalans, in Britain with the Scots, in Belgium with the Flemings, in Israel with Muslim citizens who have higher rate of population growth. Many examples exist in Africa and Asia. Remember Kosovo, torn away from Serbia because Albanians became the majority? In that case, the Americans and the West agreed to the partition of Serbia! They are no longer for partition in Crimea. A double standard.

Americans would do well proclaiming their principles carefully. For what if a Hispanic majority emerges in the Southwestern states (through immigration and high fertility) and demands to rejoin Mexico? That is a real risk in the next 20 years . . . This brings us to the old conflict between legality and legitimacy, thoroughly analyzed by Carl Schmitt. And it also makes us reflect on the concept of the multiethnic state (imperial/federal), which historically has always been difficult to manage and quite unstable.

In the minds of Putin and the Kremlin, Crimea historically belongs to Russia: it is predominantly Russian-speaking and houses part of the fleet. Putin wants to restore Russia, not to the borders of the USSR but to those of Catherine the Great, the Russian Empire, which the ambitious Vladimir wishes to defend. Then what? Of course, Vladimir Putin wants to appear to his people as the one who brought back the (formerly Russian) Crimea to the motherland and wants to restore the Russian international power.

Putin handled the crisis smoothly, using good judo to turn to his advantage the aggressive moves of his opponents, including the EU, NATO, and the U.S., to draw Ukraine into their fold.[2] It is a major geopolitical mistake to provoke Russia instead of respecting its sphere of influence, pushing it into the arms of China. It is stupid to revive the Cold War. Russophobia is not in the interests of Europeans. Russian power is not a threat, it is an opportunity. Presenting Putin’s Russia as a threat to “democracy” is the sort of lazy propaganda championed by the attention whore and professional dilettante Bernard-Henri Lévy. Of course, Washington’s policy (which is logical) is both to prevent Russia  from once again becoming a great power and decoupling the EU and Russia: it is a general trend.

Meanwhile, the Ukrainian crisis is just beginning. This improbable country will probably not find a stable balance. Crimea will probably end up being part of Russia. Eastern and Southern Ukraine may become quasi-protectorates tied to Russia. The Western region, under the influence of “nationalist” and pro-Western Ukrainians has a more complicated fate. Indeed, Ukrainian nationalism faces a fundamental contradiction, for they are attracted to the EU, but it is committed to a cosmopolitan ideology opposed to all nationalism. And all “ethnic hatred.” This cannot be overcome. There is an inherent incompatibility between Ukrainian nationalism and the EU’s ideological vulgate, which many do not understand.

In history, there are often insoluble problems. My Russian friend Pavel Tulayev, who has published me in Russia, understands this well: the union of all peoples of European descent from the Atlantic to the Pacific is the only way, regardless of political organization. The Ukraine crisis is a resurgence of the 19th and 20th centuries. But we are in the 21st century.

Notes

1. Already the “Red Hats” present Breton autonomist claims against the French State tax, yet they do not belong to the traditional Breton autonomy and independence movement. Good food for thought . . .

2. In addition, Putin played upon the new authorities in Kiev’s measures against Russian speakers.


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2014/03/on-the-russian-annexation-of-crimea/

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[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2014/03/crimea_from_space.jpg

mardi, 11 mars 2014

Ukraine: Understanding the Russian Position

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Ukraine:
Understanding the Russian Position

By Guillaume Faye 

Ex: http://www.counter-currents.com

Translated by Greg Johnson

The events in the Ukraine have a single cause. The whole thing was triggered by the European Union’s proposal of a commercial and economic association as a prelude to Ukraine’s entry into the EU and NATO. The now fallen President Yanukovych accepted this proposal because of the financial situation of his country.

The Russians could only see this as a provocation, i.e., an attempt to move Ukraine from the Russian sphere of influence and align it with the EU-US duo. The Russians then made ​​a counter-proposal of financial assistance to Ukraine. The Ukrainian government caved in and terminated the agreement with Europe in favor of the Kremlin proposal.

This was the beginning of the explosion, of the revolt led by Ukrainian nationalists, who are anti-Russian and “pro-European,” according to the journalistic vocabulary. After riots that killed about 150 people (much fewer than in the clashes in Northern Ireland),[1] what the Russians call a “coup” took place. The Ukrainian Parliament (Rada) returned and removed Vikor Yanukovych, who had been elected by universal suffrage, it is true, although this has never mattered much to the Kremlin.

Russia obviously exploited these events to regain control of the Crimea, ceded to the (purely symbolic) Soviet Republic of Ukraine by Nikita Khrushchev in 1954 and mainly populated by Russian speakers. The geopolitical reality is most compelling, and Putin’s reaction is quite understandable — although he oversteps international law — since the Russian fleet is stationed in South Sebastopol. The Kremlin can not strategically allow Ukraine, which was the cradle of Russia and includes Russophiles and Russian speakers in the East and the South, to fall into the “Western camp,” which for Putin means the EU-NATO ensemble under American influence.

It is clear that Yanukovych was a satrap and an autocrat, but no more so than 60% of the leaders of the world. And his regime (and Russia’s) do not approach the despotism observed in China, Venezuela, and many countries in Asia, Africa, and the Muslim world, with which the “free world” — the smug defenders of the Rights of Man — maintain the best of relations.

The presentation of the Ukrainian affair by Western politicians and media (including the buffoon Bernard-Henri Lévy) as a struggle for democracy is completely wrong. It arises from geostrategic interests within a country divided between a pro-Russian and Russian-speaking East and an anti-Russian, pro-European population in the West. A tragic situation in the heart of Europe that should not have been exacerbated.

In this regard, the European Union has been irresponsibly provocative, kicking an anthill, by offering Ukraine eventual membership.[2] Likewise, the Ukrainian parliament, after the establishment of the new interim regime, voted to abolish Russian as an official language in a partly Russian-speaking country, which is hardly evidence of democracy. That delivered Putin a pretext on a silver platter. He has accused the new regime, which is illegal in his eyes, of nationalism and “fascism” and threatening the security of Russian speakers, who look to Russia for protection.

But worst of all is the impudent reaction of the U.S. government. President Obama and Secretary of State John Kerry (with whom are aligned the French Socialists who are now more Atlanticist than Chirac and the Sarkozyite Right) threatened Russia with economic sanctions and exclusion from the G8, accusing her of violating international law and the UN Charter in her military intrusion into a sovereign country. Kerry spoke of the “invasion and occupation of Ukraine.” He said: “In the 21st century, you should not behave like in the 19th century by invading another country.”

The Secretary General of NATO, Anders Fogh Rasmussen, added to the provocation (what does NATO have to do with it anyway?), saying: “Russia’s actions in Ukraine violate the principles of the UN Charter. This threatens the peace and security in Europe. Russia must stop its military threats and activities.”

What incredible gall . . . The United States invaded Iraq under a false pretext without a UN mandate; they cheerfully violated the Charter, leaving a chaotic situation; and they presume to preach to Russia. The mind boggles. This nervousness is also explained by Russian slap in the West’s face over Syria.

An important point should be noted: unlike socialist France, which is aligned with Washington,[3] Germany’s Merkel has adopted a “Gaullist” position as the best interlocutor of Russia, the most likely to negotiate the crisis. Frank-Walter Steinmeier, Foreign Minister, has rejected the U.S. proposal to exclude Russia from the G8, a realist position, unlike that of the Quai d’ Orsay, Foreign Office, and U.S. State Department.

We can draw only tentative conclusions, because the Ukrainian crisis is not over.

1. It is a pity that such a conflict broke out in Europe between Europeans of the same stock (i.e., Slavic cousins), while a non-European colonial invasion, as we know, is well underway. This is reminiscent of the civil war in Northern Ireland. We tear into one another while our real enemies are completely different.

2. Ukraine is probably not a viable country in the medium term. Its partition, with Russia annexing the East and South, is both politically obvious and an insurmountable problem for international law. It is a matter of the doctrine of nationalities at the foundation of international law. Ukraine will break up sooner or later. Morality always yields to facts. Cedat lex reibus.

3. The Ukrainian crisis will revive the Cold War against Russia, which is a terrible mistake.

4. So-called “pro-European” Ukrainians have no idea of what will happen if they join the European Union: uncontrollable immigration far worse than the imagined Russian menace, loss of border controls, and partial loss of sovereignty.

Notes

1. No serious investigation has determined who was responsible for the deaths, nor who were the snipers who killed protesters. The responsibility of the Yanukovych regime is not proven. The Western media have not identified the shooters.

2. The entry of Ukraine into the EU would be an economic headache. Dangling that possibility was part of a political maneuver that the Kremlin interpreted as a provocation.

3. Mr. Hollande was received like the king of the Moon by Obama in Washington (state visit) and was totally bamboozled. Flattered like a poodle, he wanted to improve his image but did not understand the script: put France on the road to Atlanticism just when Germany steps off and enters a major economic partnership with Russia.

Source: http://www.gfaye.com/ukraine-comprendre-la-position-russe/ [3]

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

URL to article: http://www.counter-currents.com/2014/03/ukraine-understanding-the-russian-position/

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[3] http://www.gfaye.com/ukraine-comprendre-la-position-russe/: http://www.gfaye.com/ukraine-comprendre-la-position-russe/

 

mercredi, 05 mars 2014

Ukraine- Crimée : du droit de la démocratie à disposer des peuples

Ukraine-Crimée: du droit de la démocratie à disposer des peuples
 
L’ingérence nous met au bord de la guerre

Jean Bonnevey
Ex: http://metamag.fr

Le président Obama a déclaré que les Ukrainiens devaient décider de l’avenir de l’Ukraine. C’est le fameux « droit des peuples à disposer d'eux même ». Mais aujourd’hui on en est bien loin. Le nouvel impérialisme, c’est l'impérialisme démocratique, la démocratie s’accordant le droit de disposer des peuples. Il y a, au niveau mondial, une subversion démocratique tentant de remplacer des régimes pour mettre à leur place des pouvoirs pro – atlantiques, Usa- Europe de Bruxelles.

La phrase d Obama s’appliquait en fait à la crise de Crimée. Or le peuple de Crimée, si on le faisait voter, voudrait redevenir totalement russe. La Crimée cédée par Kroutchev à l’Ukraine n’a jamais été ukrainienne. Il n’est même pas sûr que si tous les ukrainiens votaient, les pro-européens l’emporteraient. La démocratie mondiale fait peu cas de l’histoire des nations et sa suffisance universelle met le monde en danger.

La Crimée est exemplaire

La Crimée, république soviétique autonome, était attachée à la Russie, lorsqu'après la Deuxième Guerre mondiale, Staline décida de rabaisser son statut à celui d'Oblast, signifiant « simple « région », mais toujours dans la Russie. En outre, en 1948, le port de la flotte russe de la mer Noire, Sébastopol, fut administrativement détaché de l'Oblast de Crimée pour être rattaché directement à la RSFSR (République socialiste fédérative soviétique de Russie). Sébastopol n'a alors rien d'Ukrainien. 

Pour fêter le tricentenaire de l'unification Ukraine-Russie, qui scellait l'union indéfectible entre les deux peuples en 1654, Nikita Khrouchtchev eut une idée: solidifier encore un peu plus cet esprit. Khrouchtchev était né sur la frontière russo-ukrainienne, avait épousé une ukrainienne, mais était quand même russe. Il était surtout communiste. Il a appliqué les pires mesures répressives staliniennes en Ukraine, y compris la famine dirigée. Il aurait pensé qu'administrativement, le rattachement de la Crimée à l'Ukraine était géographiquement et économiquement plus rationnel. Il habilla alors le transfert de la Crimée depuis la Russie vers l'Ukraine en "cadeau". En 1990, la Crimée a obtenu, à quelques mois de la dissolution de l'URSS, de redevenir une République soviétique socialiste autonome dans l'Ukraine. Avec l'indépendance de l'Ukraine, la Crimée maintient un statut de République autonome de Crimée à l'intérieur de l'Ukraine! Dans tout cela, le statut de Sébastopol actuel est  particulier : ville autonome dans une République autonome, et toute entière tournée vers l'accueil de la Flotte Russe.

Il y eut déjà, pour le contrôle de la Crimée, une guerre internationale.

La guerre de Crimée oppose de 1853 à 1856 l'Empire russe à une coalition comprenant l’Empire ottoman, le Royaume-Uni, l'Empire français de Napoléon III et le royaume de Sardaigne. Relativement coûteuse en hommes, principalement à cause des maladies (comme le choléra) qui furent plus meurtrières que les combats, elle s'acheva par une défaite russe. Elle révéla une certaine inefficacité du commandement britannique et français : mauvaises conditions sanitaires, problèmes d'approvisionnement des corps expéditionnaires, généraux ayant été nommés par opportunisme politique plus qu'en fonction de leurs compétences. Par ailleurs elle montra que les Russes avaient sous-estimé la valeur des Turcs. Les russes sont battus mais sont restés.

Une autre date clé de l’histoire de la région est l’année 1300, qui vit les cavaliers mongols déferler sur l’Europe, conquérir la Crimée et instaurer l’islam comme religion principale, et ce, pour plusieurs siècles. Peu après, en 1427, fut créé par les Tatares à la suite de la défaite de la Horde d’Or, le Khanat de Crimée avec pour capitale Bakhchisarai, qui fut jusqu’au 18ème siècle un centre important de pouvoir dans la région.

La fin de la guerre russo-turque en 1774 et le traité de Kutschuk-Kaïnardji marqua la fin d’une certaine indépendance de la Crimée. La région, finalement annexée par l’Empire russe grâce à la victoire finale du Prince Potemkine en 1783, fut déclarée par l’impératrice Catherine la Grande « terre éternellement russe ».

A la suite de cette annexion, une grande partie de la population tatare alla se réfugier dans l’empire Ottoman. Parallèlement à cette russification de fait, les tatares étant devenus dès lors minoritaires, l’impératrice favorisa l’implantation de colons venus d’Europe de l’Ouest.

En 1905, le pouvoir du tsar vacilla lorsque des matelots mécontents se rebellèrent et organisèrent une mutinerie sur le cuirassé Potemkine, mouillant à l’entrée du port de Sébastopol, déclenchant la Révolution de 1905-1907.

Après la révolution de 1917, la Crimée connut les affres de la guerre civile. Des années durant, ni les révolutionnaires bolchéviques, ni les russes blancs restés fidèles au tsar ne parvinrent à en prendre le contrôle. Ce n’est qu’en novembre 1920 que l’Armée Rouge, sous la conduite de Mikhaïl Frounze, chassa les derniers combattants blancs de la presqu’île.

A l’automne 1941, les troupes d’Hitler marchant sur la Russie envahirent la presqu’île. Seule la forteresse de Sébastopol put être conservée par l’Armée Rouge, qui réussit à résister à 250 jours de siège avant d’abandonner la ville. La Crimée fut reconquise en 1944 par l’Armée Rouge au terme de combats sanglants, durant lesquels la ville de Sébastopol fut réduite en cendres. Seules 9 maisons restèrent intactes. Churchill lui-même s’en émut lorsqu’il visita la ville en 1945 en marge de la conférence de Yalta, et déclara qu’il ne faudrait pas moins de 50 ans à la ville pour se relever. Staline, pris au vif, déclara la reconstruction de la Sébastopol comme priorité nationale et y parvint en cinq ans au prix de privations et d’efforts surhumains. Dès 1945, il décerna à la ville le titre de ville-héros de l’Union Soviétique. En qualité de base principale de la flotte de la Mer Noire, l’accès à Sébastopol fut longtemps interdit aux étrangers.

Mais que savent de tout cela Barak Obama et les démocrates qui croient que les dogmes du présent peuvent se passer de la connaissance du passé.

Tune Out the War Party!

 

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Tune Out the War Party!

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Ex: http://www.lewrockwell.com

With Vladimir Putin’s dispatch of Russian troops into Crimea, our war hawks are breathing fire. Russophobia is rampant and the op-ed pages are ablaze here.

Barack Obama should tune them out, and reflect on how Cold War presidents dealt with far graver clashes with Moscow.

When Red Army tank divisions crushed the Hungarian freedom fighters in 1956, killing 50,000, Eisenhower did not lift a finger. When Khrushchev built the Berlin Wall, JFK went to Berlin and gave a speech.

When Warsaw Pact troops crushed the Prague Spring in 1968, LBJ did nothing. When, Moscow ordered Gen. Wojciech Jaruzelski to smash Solidarity, Ronald Reagan refused to put Warsaw in default.

These presidents saw no vital U.S. interest imperiled in these Soviet actions, however brutal. They sensed that time was on our side in the Cold War. And history has proven them right.

What is the U.S. vital interest in Crimea? Zero. From Catherine the Great to Khrushchev, the peninsula belonged to Russia. The people of Crimea are 60 percent ethnic Russians.

And should Crimea vote to secede from Ukraine, upon what moral ground would we stand to deny them the right, when we bombed Serbia for 78 days to bring about the secession of Kosovo?

Across Europe, nations have been breaking apart since the end of the Cold War. Out of the Soviet Union, Czechoslovakia and Yugoslavia came 24 nations. Scotland is voting on secession this year. Catalonia may be next.

Yet, today, we have the Wall Street Journal describing Russia’s sending of soldiers to occupy airfields in Ukraine as a “blitzkrieg” that “brings the threat of war to the heart of Europe,” though Crimea is east even of what we used to call Eastern Europe.

The Journal wants the aircraft carrier George H. W. Bush sent to the Eastern Mediterranean and warships of the U.S. Sixth Fleet sent into the Black Sea.

But why? We have no alliance that mandates our fighting Russia over Crimea. We have no vital interest there. Why send a flotilla other than to act tough, escalate the crisis and risk a clash?

The Washington Post calls Putin’s move a “naked act of armed aggression in the center of Europe.” The Crimea is in the center of Europe? We are paying a price for our failure to teach geography.

The Post also urges an ultimatum to Putin: Get out of Crimea, or we impose sanctions that could “sink the Russian financial system.”

While we and the EU could cripple Russia’s economy and bring down her banks, is this wise? What if Moscow responds by cutting off credits to Ukraine, calling in Kiev’s debts, refusing to buy her goods and raising the price of oil and gas?

This would leave the EU and us with responsibility for a basket-case nation the size of France and four times as populous as Greece.

Are Angela Merkel and the EU ready to take on that load, after bailing out the PIIGS — Portugal, Ireland, Italy, Greece and Spain?

If we push Russia out of the tent, to whom do we think Putin will turn, if not China?

This is not a call to ignore what is going on, but to understand it and act in the long-term interests of the United States.

Putin’s actions, though unsettling, are not irrational.

After he won the competition for Ukraine to join his customs union, by bumping a timid EU out of the game with $15 billion cash offer plus subsidized oil and gas to Kiev, he saw his victory stolen.

Crowds formed in Maidan Square, set up barricades, battled police with clubs and Molotov cocktails, forced the elected president Viktor Yanukovych into one capitulation after another, and then overthrew him, ran him out of the country, impeached him, seized parliament, downgraded the Russian language, and declared Ukraine part of Europe.

To Americans this may look like democracy in action. To Moscow it has the aspect of a successful Beer Hall Putsch, with even Western journalists conceding there were neo-Nazis in Maidan Square.

In Crimea and eastern Ukraine, ethnic Russians saw a president they elected and a party they supported overthrown and replaced by parties and politicians hostile to a Russia with which they have deep historical, religious, cultural and ancestral ties.

Yet Putin is taking a serious risk. If Russia annexes Crimea, no major nation will recognize it as legitimate, and he could lose the rest of Ukraine forever. Should he slice off and annex eastern Ukraine, he could ignite a civil war and second Cold War.

Time is not necessarily on Putin’s side here. John Kerry could be right on that.

But as for the hawkish howls, to have Ukraine and Georgia brought into NATO, that would give these nations, deep inside Russia’s space, the kind of war guarantees the Kaiser gave Austria in 1914 and the Brits gave the Polish colonels in March 1939.

Those war guarantees led to two world wars, which historians may yet conclude were the death blows of Western civilization.

jeudi, 27 juin 2013

Énigme turque et ours russe

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Énigme turque et ours russe

Ex: http:://www.dedefensa.org/

Le site DEBKAFiles annonce que la Turquie a décidé de fermer ses frontières aux rebelles syriens, et plus précisément au passage d’armes US et otaniennes vers la Syrie. On connaît DEBKAFiles, dont les informations sont diffusées à partir de milieux proches des services de sécurité israéliens et sont nécessairement de véracité variable. Pourtant, il est un domaine où DEBKAFiles s’est montré ces derniers temps particulièrement attentif, qui est celui du comportement de la Russie, et du poids grandissant de la Russie sur la crise syrienne et tout ce qui va autour. Il semble d’ailleurs que cette orientation corresponde à une attention grandissante d’Israël vis-à-vis de la Russie, considérant ce pays désormais comme un acteur majeur de la région avec lequel il faudrait éventuellement envisager (dans le chef d’Israël) certains arrangements, à mesure que les USA sont moins actifs et dominateurs qu’auparavant et le sont de moins en moins. Par conséquent, les nouvelles que donne DEBKAFiles concernant la Russie sont particulièrement soignées et, souvent, reflètent certaines vérités de la situation. Or, la nouvelle rapportée ici concernant la Turquie est directement liée à la Russie, et à la crainte d’Erdogan concernant les réactions de la Russie si la Turquie continue à aider les rebelles syriens. Tout cela correspondrait assez justement au rôle grandissant de la Russie.

Le texte dont nous faisons ci-dessous des citations est donc de DEBKAFiles, du 22 juin 2013.

«The US decision to upgrade Syrian rebel weaponry has run into a major setback: DEBKAfile reveals that Turkish Prime Minister Tayyip Erdogan phoned President Barack Obama in Berlin Wednesday, June 19, to report his sudden decision to shut down the Turkish corridor for the transfer of US and NATO arms to the Syrian rebels. [...]

»Erdogan’s decision will leave the Syrian rebels fighting in Aleppo virtually high and dry. The fall of Qusayr cut off their supplies of arms from Lebanon. Deliveries through Jordan reach only as far as southern Syria and are almost impossible to move to the north where the rebels and the Hizballah-backed Syrian army are locked in a decisive battle for Aleppo.

»The Turkish prime minister told Obama he is afraid of Russian retribution if he continues to let US and NATO weapons through to the Syrian rebels. Since the G8 Summit in Northern Ireland last week, Moscow has issued almost daily condemnations of the West for arming “terrorists.”

»Rebel spokesmen in Aleppo claimed Friday that they now had weapons which they believe “will change the course of the battle on the ground.” DEBKAfile’s military sources are strongly skeptical of their ability – even after the new deliveries — to stand up to the onslaught on their positions in the embattled town by the combined strength of the Syrian army, Hizballah troops and armed Iraqi Shiites. The prevailing intelligence assessment is that they will be crushed in Aleppo as they were in Al Qusayr. That battle was lost after 16 days of ferocious combat; Aleppo is expected to fall after 40-60 days of great bloodshed.

»The arms the rebels received from US, NATO and European sources were purchased on international markets – not only because they were relatively cheap but because they were mostly of Russian manufacture. The rebels are thus equipped with Russian weapons for fighting the Russian arms used by the Syria army. This made Moscow angrier than ever.»

Par ailleurs, le même DEBKAFiles annonce des renforts importants venant de Russie pour la Syrie, notamment un contingent de 600 “marines” russes, soldats d’infanterie de marine ou/et forces spéciales (Spetnatz). Ce déploiement est présenté comme une mesure consécutive au sommet du G-8, et à ce qui est présenté par DEBKAFiles comme “un échec” (le sommet) et l’occasion pour les Russes de se forger une conviction concernant les livraisons d’armes du bloc BAO vers les rebelles, non seulement projetées mais d’ores et déjà en cours. Ce point est évidemment à mettre en corrélation avec la nouvelle que le même DFEBKAFiles annonce ci-dessus concernant la décision turque de fermer sa frontière aux rebelles syriens. L’argument de la protection des 20.000 citoyens russes en Syrie est largement présenté comme impératif dans la décision russe d’envoyer ces forces en Syrie, avec l’annonce supplémentaire que des forces aériennes russes seraient déployées en Syrie si une no-fly zone était établie par le bloc BAO. (DEBKAFiles, le 21 juin 2013 .)

«Just one day after the G8 Summit ended in the failure of Western leaders to overcome Russian resistance to a resolution mandating President Bashar Assad’s ouster, Moscow announced Wednesday June 19, the dispatch to Syria of two warships carrying 600 Russian marines. They were coming, said the official statement, “to protect the Russian citizens there.” Russian Deputy Air Force Commander Maj.-Gen. Gradusov added that an air force umbrella would be provided the Russian expeditionary force if needed.

»DEBKAfile's military sources report that the pretext offered by Moscow for sending the force thinly disguised Russian President Vladimir Putin’s intent to flex Russian military muscle in response to the delivery of Western heavy arms to Syrian rebels – which DEBKAfile first revealed Tuesday, June 18.»

Si elle est confirmée, la nouvelle donnée par DEBKAFiles concernant la Turquie est évidemment du plus grand intérêt. Si l’on s’en tient aux seules circonstances décrites et toujours en leur accordant le crédit de la véracité, on dirait, en un terme hérité du temps de la Guerre froide, qu’une telle circonstance se nommerait “finlandisation”, en plus appliquée à un membre de l’OTAN dans le cas turc (ce que n’était pas la Finlande dans les années de Guerre froide). Il s’agit de la paralysie, ou plus simplement de l’absence volontaire d’actes de politique extérieure, et encore plus d’actes militaires contraires aux intérêts de l’URSS, qui caractérisait la politique générale de la Finlande en échange de l’indépendance que respectait cette même URSS.

Dans tous les cas, – véracité ou pas de la nouvelle, – il ne fait aucun doute qu’en cas d’aggravation de la tension en Syrie, avec renforcement russe direct, pour une raison ou l’autre, la Turquie sera soumise de facto à de très fortes pressions russes dans le sens qu’on devine. Cela conduirait effectivement à une situation tout à fait inédite, dans la mesure extrêmement importante pour ce cas où la Turquie est membre de l’OTAN. On rapprochera ce cas d’une autre occurrence évoquée le 4 juin 2013 (Russia Today) par Medvedev, lors de questions qui lui étaient adressées par des journalistes, durant le Euro-Atlantic Forum, en Ukraine, et qui concernent plutôt le flanc Nord des rapports Russie-OTAN. Les réponses de Medvedev sur l’attitude de la Russie concernant de nouveaux membres de l’OTAN pourraient être extrapolées pour d’actuels membres de l’OTAN, notamment la Pologne, particulièrement concernée puisqu’elle déploie des missiles antimissiles US contre lesquels sont déployés des SS-26 Iskander russes dans l’enclave de Kaliningrad. Là aussi, la démarche russe telle qu’elle se dessine, également contre des membres de l’OTAN (la Pologne pouvant bien être la Turquie du Nord à cet égard), prend de plus en plus l’aspect d’une riposte offensive aux pressions exercées contre la Russie depuis vingt ans par l’OTAN, les USA et les divers États-clients (anciens d'Europe de l'Est complètement “rachetés” par les réseaux et l'argent US) et autres ONG téléguidés par les USA (type “révolutions de couleur“ et “agression douce“).

«When a reporter asked Dmitry Medvedev how the balance of forces in Europe will change if Sweden and Finland decide to enter NATO, the Russian Prime Minister answered that his country would have to react to such developments. “This is their own business; they are making decisions in accordance with the national sovereignty doctrine. But we have to consider the fact that for us the NATO bloc is not simply some estranged organisation, but a structure with military potential,” the head of the Russian government said adding that under certain unfavorable scenarios this potential could be used against Russia. “All new members of the North Atlantic alliance that appear in proximity of our state eventually do change the parity of the military force. And we have to react to this,” the top official noted.»

D’autre part, et considérant d’un autre point de vue la nouvelle initiale concernant la Turquie, on admettra qu’un (nouveau) changement d’orientation sinon d’“alliance” de facto de la part d’Erdogan, prenant ses distances du bloc BAO pour s’extraire du guêpier syrien et se replacer dans un axe Moscou-Ankara-Téhéran, pourrait être de bonne politique intérieure pour lui. Cela permettrait de remobiliser puissamment les forces qui l’ont soutenu fermement jusqu’à ce qu’elles perdent un peu de leur allant avec sa politique syrienne anti-Assad, détestée par de nombreux milieux turcs, y compris dans son propre parti, y compris chez les contestataires qui occupent actuellement les rues. Il s’agirait, comme nous l’avons envisagé, d’une voie vers une “relégitimisation” d’Erdogan (voir le 10 juin 2013), qui pourrait contribuer notablement à réduire les dimensions et le dynamisme de la contestation publique.

mercredi, 23 janvier 2013

La position stratégique de la Roumanie dans l’Union Européenne

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La position stratégique de la Roumanie dans l’Union Européenne

par Floriana Maniutiu
 
Ex: http://www.infoguerre.fr/

La Roumanie a été un pays très attractif au fil du temps pour les plus grandes puissances du monde : l’UE, la Russie et les Etats-Unis, grâce à sa position géographique, à ses ressources naturelles disponibles et à l’accès aux voies maritimes importantes. Toutefois, le manque d’une vraie stratégie post-adhésion UE ainsi que la mauvaise coordination des pratiques politiques nationales ont mené à un fort affaiblissement de l’influence de la Roumanie sur l’UE, durant ces dernières années. Est-ce que, à nos jours, la Roumanie représente encore d’intérêt pour l’Union Européenne et son intégration totale au sein de l’Europe ?

UN GRAND POTENTIEL EN TERMES DE PUISSANCE…

La position géographique. L’isthme ponto-baltique

Le territoire roumain représente la frontière Est de l’UE et l’OTAN et constitue le lien avec l’Europe Orientale, la Russie et le Moyen Orient. Il serve comme plateforme de transport paneuropéen ainsi que comme porte d’entrée pour toute activité commerciale provenant de l’Est.

L’accès aux voies de transport maritime

La Roumanie comprend sur son territoire plus de 30% de la voie fluviale la plus importante de l’Europe, le Danube, ayant aussi accès à la Mer Noire. Cette position marque le point de confluence des pôles générateurs de transports de l’Europe, Balkans et du Moyen-Orient. Elle constitue ainsi une plateforme importante des flux de trafic du basin marin (devenant un hub pour la circulation fluviale qui remonte le Danube), représentant un grand intérêt pour les secteurs de l’agriculture, du commerce et de l’énergie (énergie nucléaire et hydraulique, la centrale « Portile de Fier » étant une des plus grandes centrales hydroélectriques européennes).

Les ressources naturelles et le potentiel énergétique

La richesse naturelle du territoire roumain se traduit par de grandes quantités de ressources, notamment : le bois, le charbon, les grandes surfaces agricoles et les terrains fertiles, mais aussi le gaz naturel et le pétrole. La Roumanie est considérée un des pays les plus attractifs du point de vue de son potentiel énergétique pour l’exploitation des ressources renouvelables. On mentionne ici l’énergie éolienne et les réserves de gaz de schiste comme domaines d’intérêt majeur pour une exploitation future.

L’axe de la défense et de la sécurité internationale

Suite à l’adhésion à l’OTAN en 2004, le Roumanie s’inscrit sur l’axe de la défense et de la sécurité internationale, par l’ouverture de l’espace terrestre et aérien aux troupes militaires américaines et par la création des bases militaires portuaires pendant la guerre en Irak. Ainsi, ce pays arrive à être un point militaire stratégique pour la préparation des cadres militaires et aussi pour la participation active en temps de conflit.

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…MAIS UNE FAIBLE UTILISATION DES FORCES

L’instabilité politique interne et les problèmes de corruption

L’intensification des conflits et des désaccords entre les forces politiques présentes au sein du gouvernement roumain a conduit à un vrai coup d’Etat cette année, mettant en lumière deux aspects négatifs majeurs : la pratique de la corruption aux plus hauts niveaux de l’Etat, ainsi que l’abus de contrôle du président de la république et des autres membres de la gouvernance. Les derniers événements qui ont eu lieu sur la scène politique roumaine ont eu un impact majeur sur l’image externe du pays. L’instabilité politique de l’Etat a diminué la confiance de l’Union Européenne et des autres partenaires externes en l’Etat roumain, affectant ses perspectives futures de gagner des nouveaux accords et de contrats d’investissement.

Un ralentissement du développement dans tous les domaines stratégiques

A présent, la Roumanie garde une position globale plutôt faible face à l’Union Européenne. Dans le cadre de la crise économique européenne qui a débuté en 2008, les problèmes nationaux existants au niveau de la gestion des finances publiques, de la corruption et de la bureaucratie se sont aggravés. En conséquence, la Roumanie a subit des grands déficits budgétaires, ainsi qu’une forte diminution en termes de volume d’investissements directs étrangers, ralentissant son évolution à long terme. En même temps, tous ces éléments ont engendré une dégradation majeure en termes de puissance de la Roumanie sur le marché européen de consommation.

Dans le domaine militaire aussi, on constate une baisse de l’influence de la Roumanie. L’Etat ne bénéficie plus d’un équipement technique performant et mis à neuf, imputable au manque d’investissements au cours des dernières années. Cela révèle la décroissance en importance du pays en ce domaine à travers le temps, dû à l’échec de développer une stratégie claire et de s’affirmer comme vrai acteur dans la problématique de la défense et pas comme un simple accessoire.

Mais peut-être un des plus grands échecs que la Roumanie a vécu reste celui du secteur énergétique, par l’incapacité de participer aux projets South Stream ou Nabucco. L’Etat roumain a eu une position incertaine dans les négociations, favorisant l’alliance avec la Russie dans la perspective d’obtenir un accord direct avec celle-ci pour l’approvisionnement en gaz naturel (en vue de renoncer aux intermédiaires), mais en se déclarant en même temps partisan du projet South Stream, pour les implications pour l’Union Européenne. Ce jeu confus a mis sous doute, une fois de plus, la loyauté de la Roumanie face à l’UE, diminuant sa crédibilité en qualité de partenaire et d’allié.

Les échecs diplomatiques

Sur le plan international, la Romanie n’a pas encore réussi à élaborer une stratégie diplomatique claire, ce qui a rendu difficile l’amélioration de son image externe. Cela s’explique principalement par une orientation vers la défense des intérêts nationaux face à l’organisation européenne, au lieu d’essayer d’intégrer les valeurs européennes globales dans l’élaboration de sa politique nationale.

L’Etat roumain s’est aussi confronté avec un problème de représentation dans le Conseil Européen, mettant en lumière le manque de concordances existant au niveau des réglementations nationales. La séparation des attributions concernant la politique externe du pays marque le clivage entre celui qui élabore et celui qui représente les stratégies internationales de l’Etat à l’extérieur. Ce fait a entrainé un manque de confiance des partenaires et des acteurs européens dans le déroulement de leurs négociations avec l’Etat roumain car ils doivent passer par des intermédiaires qui n’ont ni d’intérêts directs, ni pouvoir de décision.

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Il semble aussi important de mentionner les entraves rencontrées dans les démarches d’adhésion à l’espace Schengen. Si, à la base, c’était un problème de positionnement géographique qui facilitait l’entrée du commerce illégal et du trafic illégal des personnes en Europe, maintenant, le refus d’adhérer à l’espace Schengen est surtout un problème d’ordre politique. Les officialités européennes ont conditionné la révision de toute nouvelle demande d’adhésion par la résolution des conflits politiques internes et par la création d’un environnement interne stable.

PERSPECTIVES ET CONCLUSION

A ce jour, la Roumanie n’est plus considérée comme un membre significatif pour l’Union Européenne. Elle n’a pas réussi développer de smart power qui lui aurait permis de combiner de manière efficace ses outils de puissance, afin de reprendre sa place comme partenaire-clé dans l’espace européen. Cette situation pourrait cependant changer, à condition que la Roumanie dirige tous ses efforts vers une résolution des tensions politiques internes, suivie par une redéfinition totale de ses stratégies externes futures.

Floriana Maniutiu

REFERENCES BIBLIOGRAPHIQUES

Cristescu Juliette et Muntele Ionel, « Les conséquences humaines et territoriales du processus d'adhésion de la Roumanie à l'Union européenne », L'Information géographique, 2007/4 Vol. 71
Duboz Marie-Line, « Bulgarie, Roumanie » Interrogations sur leur adhésion à l'Union européenne, Le Courrier des pays de l'Est, 2007/5 n° 1063, p. 34-42
Institutul « Ovidiu Sincai » : « Influenta Romaniei in Uniunea Europeana : Rezultate si perspective », Raport de analiza politica, 2009/5, Bucuresti, « Despre Actiunea Internationala a Romaniei – dilema institutionala sau problema politica ? », Raport de analiza politica, 2012/05
Lhomel Édith, « Roumanie 2002-2003 » Un parcours encourageant, mais parfois sinueux, Le Courrier des pays de l'Est, 2003/6 n° 1036-1037, p. 173-189
Lhomel Édith, « Roumanie 2003-2004 » Sur la dernière ligne droite ?, Le Courrier des pays de l'Est, 2004/4 n° 1044, p. 185-201

 

Rey Violette et Groza Octavian, « Bulgarie et Roumanie, un « entre-deux » géopolitique dans l'Union européenne », L'Espace géographique, 2008/4 Tome 37, p. 365-378

mercredi, 28 novembre 2012

Moskau über Aufstockung von Nato-Militärpotential in Türkei besorgt

Moskau über Aufstockung von Nato-Militärpotential in Türkei besorgt

von Sergei Guneev

Der russische Aussenminister Sergej Lawrow hat in einem Telefongespräch mit Nato-Generalsekretär Anders Fogh Rasmussen die Besorgnis Russlands über die Pläne der Nato zur Aufstockung ihres Militärpotentials in der Türkei bekräftigt. Das geht aus einer Mitteilung des russischen Aussenministeriums hervor.
Das Telefongespräch fand auf Initiative der Nato-Seite statt.
Laut der Mitteilung hat Rasmussen Lawrow über die Situation mit dem an die Nato gestellten Antrag der Türkei informiert, ihr Patriot-Abwehrraketen zur Verfügung zu stellen. 
Der russische Aussenminister äusserte Besorgnis über die geplante Verstärkung des Militärpotentials der Nato in der Region und bekräftigte das Angebot, eine direkte Verbindung zwischen Ankara und Damaskus herzustellen, um unerwünschte Zwischenfälle zu vermeiden.
Die Seiten erörterten auch die Vorbereitung auf die zum 4. Dezember nach Brüssel einberufene Ministersitzung des Russland-Nato-Rates.
Das Nato-Mitglied Türkei hatte die Allianz ersucht, ihr Patriot-Raketenkomplexe für den Schutz der 900 Kilometer langen Grenze zu Syrien zur Verfügung zu stellen. Laut dem Nato-Chef soll der Antrag von Ankara unverzüglich geprüft werden.

© RIA Novosti vom 23.11.2012

vendredi, 21 septembre 2012

Russia e Ucraina verso l’Unione doganale

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Russia e Ucraina verso l’Unione doganale

L’idea del capo del Cremlino di creare un’unione eurasiatica con gli ex Stati dell’Urss coinvolge anche Kiev. Gli eurocrati criticano Yanukovych

Andrea Perrone

Ex: http://rinascita.eu/


La Russia spera che la pressioni sull’Ucraina messe in atto dall’Unione europea spingano Kiev tra le sue braccia. Per questo il Cremlino sta facendo pressione sul governo di Kiev, affinché sottoscriva con la Russia un’Unione doganale, tale da rappresentare un’alternativa all’integrazione nell’Ue. I leader europei hanno avvertito l’Ucraina e in particolare il suo presidente, il filorusso Viktor Yanukovych (nella foto), proprio nel fine settimana, che Kiev rischia di non conseguire l’obiettivo di una maggiore partnership con l’Unione europea, fin quando l’ex primo ministro Yulia Tymoshenko resta in carcere. Per tutta risposta Yanukovych, parlando ad un forum a Yalta (Crimea), ha ribadito che l’Ucraina è determinata a proseguire in una maggiore integrazione con l’Europa, ma gli è stato risposto molto chiaramente e senza mezzi termini che la porta dell’Ue è chiusa fino a quando non saranno attuate le riforme nel Paese. Le causa principale di questa opposizione da parte dei leader europei è costituita dalla detenzione della Tymoshenko, che è stato condannata a sette anni per abuso di potere nei negoziati sul gas con la Russia. Tutto questo a causa di uno status giuridico che gli Stati europei affermano debba venire meno. Ma in molti sottolineano che Yanukovych ha preso la decisione di mettere in carcere la sua rivale politica per le numerose e gravi accuse che le vengono addebitate. In più, le autorità ucraine hanno affermato di essere pronte a muovere nuove accuse ai danni della Tymoshenko e per questo propongono un secondo processo contro la rappresentante dell’Occidente euro-atlantico ed ex “golpista arancione” per i suoi numerosi reati. La questione ha naturalmente allarmato i Soloni europei. “Non ha idea di quanto questo caso abbia danneggiato l’immagine dell’Ucraina in Europa”, ha sottolineato il deputato portoghese Mario David, ai ministri ucraini. “Se non avremo valori comuni, allora si può dimenticare l’Accordo di associazione”, ha proseguito il politico lusitano. È necessario ricordare che nei mesi scorsi l’Ucraina e l’Ue hanno sottoscritto un documento che apre la strada a Kiev a stringere una partnership via via sempre più stretta con l’Unione europea, ma l’Ue ha messo in chiaro che l’intesa non sarà ratificata fin quando rimarrà in vigore a Kiev il clima politico attuale. Nonostante le posizioni espresse dagli eurocrati, Yanukovych non si è fatto intimorire affatto e ha annunciato che il suo Paese è deciso a favorire una maggiore integrazione, ma ora che l’Unione europea sta facendo pressioni su Kiev affinché cambi la politica interna, espresse dai tecnocrati di Bruxelles e Strasburgo, stanno spingendo l’Ucraina tra le braccia della Russia, grazie alle proposte di quest’ultima per portare sempre più Kiev nella sua orbita. I funzionari russi, a Yalta nel fine settimana per partecipare al Forum, hanno sollecitato i leader di Kiev a prendere parte alla formazione dell’Unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Alexei Kostin, responsabile russo della VTB Bank e vicino al presidente Vladimir Putin, ha detto che la Russia non imporrebbe alcuna precondizione all’Ucraina. Per quanto riguarda l’Unione europea ciò che rovina le relazioni tra Kiev e Bruxelles è la detenzione della Tymoshenko, ma indubbiamente anche le posizioni filo-russe espresse da Yanukovych che certamente all’Occidente euro-atlantico non sono affatto gradite. Dal canto suo Carl Bildt, ministro degli Esteri svedese, ha dichiarato al quotidiano britannico The Independent che, nel corso di un incontro con Yanukovych, ha spiegato al presidente ucraino che l’Unione europea vuole vedere elezioni libere e corrette prima che l’accordo di adesione all’Ue venga ratificato. “La questione riguardante Yulia è in realtà soltanto la punta dell’iceberg e vi è grande preoccupazione riguardo allo Stato di diritto e alla politicizzazione dei tribunali”, ha commentato il capo della diplomazia di Stoccolma, sottolineando le critiche degli eurocrati all’indirizzo dell’Ucraina, che preferiscono sia sotto il controllo di Washington e Bruxelles, piuttosto che di Mosca. Adesso tutto è rimandato alle elezioni parlamentari previste per il mese prossimo, quando capo dello Stato e leader del Partito delle Regioni Yanukovych, si scontrerà con il partito BYuT della Tymoshenko e con diversi partiti di opposizione minori. Yanukovych dal canto suo ha ricordato che gli osservatori europei sono stati invitati a controllare lo svolgimento del voto, insistendo sul fatto che le elezioni saranno libere ed eque. Ma gli analisti, i media embedded e il mondo euro-atlantico hanno espresso il loro disaccordo, anche per la situazione che vive la fedelissima degli Stati Uniti e del mondo atlantico, Yulia Tymoshenko ancora in carcere per le accuse mosse contro di lei, tra cui un presunto omicidio di un avversario politico, che evidenziano i numerosi reati e il ruolo negativo da lei giocato nella politica ucraina dalla “rivoluzione arancione” (2004) in poi.


18 Settembre 2012 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=16779

jeudi, 31 mai 2012

L’Ukraine boycottée ou la vengeance de l’Occident

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Bernhard TOMASCHITZ:
L’Ukraine boycottée ou la vengeance de l’Occident

L’Ukraine est menacée de boycott, non pas pour le sort infligé à Madame Timochenko mais pour l’orientation pro-russe du Président Ianoukovitch

Le prolongement des accords russo-ukrainiens sur la présence de la flotte russe en Mer Noire a heurté les Etats-Unis

Quelques semaines avant le début des matches pour la coupe européenne de football, l’Ukraine, pays hôte, est mis sous pression. Le président de la Commission de l’UE, Barroso, a renoncé à sa visite lors des matches, de même que plusieurs hommes politiques en vue d’Europe occidentale. Quant au ministre allemand des affaires étrangères, Westerwelle, il a adressé quelques remontrances au gouvernement de Kiev: “Le gouvernement ukrainien doit savoir que le chemin vers l’Europe passe par un pont qui repose sur deux piliers: la démocratie et l’Etat de droit”.

Le motif officiel de ces tensions croissantes est la détention de Ioulia Timochenko. L’ancienne première ministre a été condamnée l’automne dernier à sept années de prison pour corruption, parce qu’elle avait conclu un accord gazier avec la Russie, que les juges ont considéré comme défavorable à l’Ukraine. Ces accords ont entraîné une perte de quelque 137 millions d’euros. L’Occident a sévèrement critiqué ce jugement: il critique le Président pro-russe Viktor Ianoukovitch d’avoir voulu se débarrasser d’une adversaire mal aimée. “En infligeant une sentence sévère à l’encontre de Madame Timochenko, le gouvernement Ianoukovitch a rejoint la liste, toujours plus longue, des gouvernements qui utilisent le droit pénal pour l’appliquer à d’anciens dirigeants. Des anciens premiers ministres, des présidents, des ministres et des chefs de l’opposition —tous adversaires politiques de ceux qui sont au pouvoir— sont désormais traduits en justice ou menacés de poursuites judiciaires”, écrit Arch Puddington, vice-président de “Freedom House”, une boîte américaine spécialisée en propagande. Toute une batterie de nouveaux reproches ont fait déborder le vase: la “princesse du gaz” Timochenko se verrait refuser des traitements médicaux en prison, elle y serait maltraitée, etc.

Mais en fait cet assaut propagandiste et médiatique contre l’Ukraine, qui est un pays où la notion d’Etat de droit est différente de celle en vigueur en Occident, a d’autres motivations: il vise le Président Ianoukovitch. Il y a deux ans, quand celui-ci a battu le pro-occidental Viktor Iouchtchenko qui, aux côtés de Ioulia Timochenko, était la deuxième icône de la “révolution orange” soutenue par les Etats-Unis, la politique ukrainienne a changé de cap. Iouchtchenko avait voulu rejoindre l’OTAN: cette intention ukrainienne a été rayée de l’ordre du jour dès l’accession à la présidence de Ianoukovitch. Les relations avec la Russie se sont normalisées, alors qu’elles avaient été fort tendues jusqu’alors. Quand Ianoukovitch a prolongé le contrat de location des bases navales russes en Crimée, à Sébastopol, dont le terme était prévu pour 2017, il a en quelque sorte franchi une ligne rouge.

Dès l’accession de Ianoukovitch à la présidence, le 7 février 2010, le tir de barrage a commencé. Le publiciste américain Walter Russell Mead, habituellement modéré dans ses propos, écrivait, dès le lendemain, que la victoire de Ianoukovitch “constituait un nouveau camouflet à l’idée que le monde tout entier deviendrait rapidement démocratique”. Plus incisif fut le politologue new-yorkais Alexander J. Motyl au cours de l’été 2010 dans les colonnes de la célèbre revue “Foreign Affairs”. D’après Motyl, Ianoukovitch choisirait ses ministres comme un “patron” et privilégierait des hommes et des femmes issus de la minorité russe de l’Est de l’Ukraine, ce qui mettrait le “consensus national en danger”.

On ne s’étonnera guère que Motyl critique surtout le prolongement du bail de location des bases navales de la flotte russe de la Mer Noire. D’après lui, ce prolongement serait une décision irréfléchie, prise à la hâte, sans qu’il n’ait été tenu compte des “effets géopolitiques potentiels pour l’Ukraine”. En prolongeant ce bail, Ianoukovitch aurait “bradé” la sécurité de l’Ukraine en “livrant à la Russie, pour un certain temps, le contrôle informel de la Crimée, des voies maritimes incontournables et des ressources gazières qui la jouxtent”.

Pour les Etats-Unis, le prolongement du bail constitue un revers considérable pour leurs ambitions géopolitiques en Europe orientale. Même si l’adhésion de l’Ukraine n’est plus aujourd’hui à l’ordre du jour, Washington a désormais les mains liées jusqu’en 2042. Avec une base russe sur son territoire national, l’Ukraine n’adhèrera pas au Pacte nord-atlantique; quant à un rejet unilatéral du bail de la part de l’Ukraine, la Russie ne l’acceptera pas. De cette façon, les Etats-Unis éprouveront les plus grandes difficultés à contrôler ce que les géopolitologues de tradition anglo-saxonne nomment le “Heartland”, soit l’espace-noyau eurasien. En 1919, en effet, le géographe britannique Sir Halford J. Mackinder écrivait, suite à la première guerre mondiale, la révolution russe et l’occupation par les troupes allemandes de l’Ukraine après le traité de paix germano-soviétique de Brest-Litovsk: “Qui gouverne l’Europe orientale, domine l’espace-noyau. Qui gouverne l’espace-noyau, domine l’ïle mondiale (l’Europe, l’Asie et de nombreuses portions de l’Afrique). Qui gouvernne l’île mondiale, domine le monde”.

Les Etats-Unis avaient réussi à dominer momnetanément cet espace-noyau, auquel appartient au moins l’Ukraine orientale, grâce à la “révolution orange” qu’ils avaient mise en scène de l’automne 2004 au printemps 2005. A l’époque, l’ambassadeur des Etats-Unis en poste à Kiev, John Herbst, avait joué dans ce jeu un rôle déterminant. Les affaires étrangères américaines écrivent à son sujet: “Lorsqu’il était en fonction, il a travaillé à l’amélioration des relations américano-ukrainiennes et a contribué au déroulement d’élections présidentielles correctes (“fair”). A Kiev, il a vécu la “révolution orange”. Auparavant, John Herbst avait été ambassadeur des Etats-Unis en Ouzbékistan, où il a joué un rôle décisif dans l’installation d’une base américaine appelée à soutenir l’Opération ‘Enduring Freedom’ en Afghanistan”.

Les Etats-Unis n’ont pourtant pas réussi à maintenir sur le long terme l’Ukraine dans leur sphère d’influence. Cet échec s’explique pour plusieurs raisons: le duo Iouchtchenko/Timochenko s’est rapidement dissous; les conditions de vie des Ukrainiens n’ont pas pu être améliorées pour l’essentiel et la politique pro-américaine de Iouchtchenko a accentué le vieux clivage entre Ukraine de l’Est et Ukraine de l’Ouest. Mais cet échec n’exclut pas une nouvelle révolte colorée qui pourrait à nouveau changer la donne. Car n’oublions pas ce qu’écrivait Motyl il y a deux ans: “Si Ianoukovitch maintient le cours qu’il poursuit aujourd’hui, il pourrait provoquer une deuxième révolution orange”. Le cas Timochenko pourrait en donner le prétexte.

Bernhard TOMASCHITZ.
(article tiré de “zur Zeit”, Vienne, n°19/2012; http://www.zurzeit.at/ ).